Di che cosa parla quest’articolo, si chiedono ogni giorno a fine lettura i poveri redattori cui la vita ha affidato la sfortuna di titolare “L’avvelenata”. Oggi giornatona: non lo so neanch’io. Propongo d’indire un sondaggio per deciderlo tutti insieme.
È questo un articolo sulla più famosa vignetta dell’era Trump? È questo un articolo sui comici che, ha ragione Chris Rock, sono i nuovi filosofi, e in quanto tali riescono a parodiare un anno prima le cose che succedono un anno dopo? È questo un articolo sull’indicibile come scusa per gli scarsi e occasione per i bravi? È questo un articolo sulla solita regola di Katharine Hepburn? È questo un articolo sull’unica regola del dibattito pubblico che non sbagli mai mai mai, confermata ieri durante la conferenza stampa al termine della visione di “Buen Camino”? Chissà.
Cominciamo da quel che c’è dentro “Buen Camino”, e poi decidiamo. Dentro “Buen Camino” ci sono tutti. C’è l’Aldo Fabrizi di “C’eravamo tanto amati”: quando Zalone si risveglia in ospedale, è impossibile non pensare al ricco che è solo mentre i poveri «sono tanti, si fanno compagnia». C’è il Leonardo DiCaprio di “Una battaglia dopo l’altra”, che quella figlia adolescente proprio non la capisce (Luca Medici, ideatore e interprete di Checco Zalone, ha due figlie, ma qui non ci interessano più di quanto ci interessi il fatto che DiCaprio ha fidanzate, nella vita, coetanee della figlia nel film: qui interessa il personaggio di scena, mica il materiale da rotocalchi).
C’è Fedez che vuole fare la storia della Costa Smeralda («facciamo una cosa che svetti nella storia», dice Zalone all’organizzatore che gli ha costruito una piramide secondo lui troppo piccola per il cinquantesimo compleanno a Porto Cervo). C’è George Clooney che in “Jay Kelly” è uno Zalone che fa meno ridere ma altrettanto all’inseguimento in giro per l’Europa d’una figlia che di lui e dei suoi soldi non vuole saperne. E c’è il Timothée Chalamet che, durante le interviste per “Marty Supreme”, è riuscito a rispondere «chi??» sia a Emma Thompson che gli diceva che s’è tagliato i capelli come Sansone sia a Gwyneth Paltrow che gli diceva che lei ascolta volentieri Bonnie Raitt. Checco Zalone, il nostro Timothée, non sa quanti siano i continenti, e pensa che Città del Messico sia una imprecisata (per discrezione) città in Messico. Considerato che “C’eravamo tanto amati” ha cinquantun anni, ma il resto dei riferimenti sono di quando “Buen Camino” era già finito, è chiaro che Checco Zalone, unico vero filosofo italiano vivente, vede il futuro.
A un certo punto della conferenza stampa Medici dice che la ragazzina del film «è in cerca di valori autentici, non come le mie», e a me viene in mente quel monologo in cui Chris Rock raccontava che suo padre, nell’America del segregazionismo, andava in negozio con una fettuccia con cui si era misurato i piedi perché i neri non potevano provare le scarpe prima di comprarle, e poi il figlio comico aveva fatto i soldi, e la terza generazione erano le figlie di Chris Rock che, se le porti su un aereo privato, si lamentano se non è l’ultimo modello.
Se Chris Rock invece che un monologo teatrale (in analfabetese: stand-up) facesse un film di Natale, seguirebbe anche lui la regola che fu di Hepburn e ora è di Medici. La ragazzina è in cerca di valori veri (qualunque cosa essi siano) perché quel che vuole sentirsi dire il pubblico è che i giovani sono migliori di noi, e vale l’indicazione data da Katharine Hepburn al commediografo che doveva scrivere “Scandalo a Filadelfia”: falla come me, ma a un certo punto falla ammorbidire. Non vogliono, quelli che faranno incassare i fantastiliardi a “Buen Camino”, sentirsi dire la verità: vogliono sentirsi dire che i giovani sono migliori di noi, che hanno valori veri, che cercano spiritualità. Varie volte nel film si dice, per elogiare la diversità della ragazza, che ha chiuso i social, e nessuno pare notare che continua ad accendersi la telecamera in faccia con voluttà: in cosa sarebbe diversa dal padre prima d’ammorbidirsi, da quel simil-Gianluca Vacchi che la telecamera la accende sulla servitù che fa i balletti?
Sono entrata a vedere “Buen camino” con in testa due citazioni. Una viene da “Il Pop e la felicità” di Claudio Giunta (Mondadori), e fa così: «Chi mai dirà i danni che all’intelligenza italiana ha fatto la satira politica?». L’altra viene da un innominato intellettuale che, prima di vedere il film, mi aveva scritto questo pronostico che, come tutti i pronostici, non parla di Zalone ma di noi: «Se ha fatto un nuovo personaggio raccapricciante, farà il pieno del popolo. Più fastidioso è, più imbarazzante e schifoso, più il multiplex di Gioia del Colle traboccherà, più gli amici nostri diranno: eh però stiamo attenti». Quelli che dicono (diranno) «eh però stiamo attenti» si sono palesati in conferenza stampa, e ora ci arrivo, ma prima ancora erano incarnati, nel film, dal patrigno della ragazza, un incrocio tra Stefano Massini e Vittorio Lingiardi, che ritiene la figliastra «vittima di una società alienante e competitiva».
Accantonati Giunta e l’innominato, guardando il film ho avuto il sospetto che la citazione giusta stesse in quella che forse è la più famosa vignetta dell’era Trump, disegnata da Paul Noth sul New Yorker nell’estate 2016. C’era un manifesto elettorale con un lupo che diceva: vi mangerò tutte. E sotto le pecore che annuivano ammirate: non le manda a dire. Per tutto il film pensi che Zalone fa schifo ma ha ragione, fa schifo ma almeno non simula semicultura o interesse alle sorti del mondo, fa schifo ma almeno fa ridere. Ti senti un po’ la pecora di Paul Noth, certo, ma lo pensi. Quando ho visto il trailer di Zalone ho scritto qui che gli avrebbero dato dell’antisemita per la battuta su “Schindler’s List”.
Doveva essere un’iperbole, ma il giorno dopo su Facebook c’era veramente un dibattito su quanto fosse offensiva quella battuta (che nel film ha un seguito ancora più stronzo). Ieri guardavo il film, e ammiravo una battuta strepitosa su Gaza e una sull’11 settembre, che conterrò la voglia di riferirvi per non guastarvi la sorpresa. Poi è arrivata la conferenza stampa. Una giornalista ha preso la parola e ha chiesto quando le avessero scritte, quelle battutacce, perché insomma «io ho riso ma mi sono un po’ gelata», aggiungendo poi mesta che «certo, il pubblico reagisce diversamente da noi, lo sappiamo». Noi chi? Noi ottusi? Noi che non paghiamo il biglietto epperciò ci percepiamo superiori? Noi che non sappiamo distinguere una battuta da un disegno di legge giacché contesto l’è morto?
Non riuscivo a decidermi, ma poi Luca Medici, troppo intelligente per discutere con gli scemi, ha lasciato rispondere Gennaro Nunziante, il regista e cosceneggiatore. Le immagini più inviate dal mio telefono negli ultimi dodici anni sono quelle d’un’intervista a Nunziante. Era la fine del 2013, “Sole a catinelle” aveva incassato una cinquantina di milioni, i giornali che non s’erano filati Zalone pensando fosse un comico di “Zelig” con cui fare i superiori pensarono bene di risolvere prendendola alta: fecero intervistare Nunziante dalle pagine della cultura, e quello sembrava Elide Catenacci, tutt’una poetica di Barthes, un pellegrinaggio giovanile sui luoghi di Valéry, un Vonnegut come ispirazione. Faceva molto ridere, ma non volontariamente. Ieri, invece di dire alla signora che l’unica domanda da farsi davanti a una commedia non è se sia etica o no, ma quel che Tognazzi chiedeva a Trintignant in “La terrazza” («Fa ridere?»), Nunziante ha attaccato una pezza sui Bildungsroman, Abel Ferrara, il viaggio dell’eroe, l’arco narrativo, il finale chapliniano, il messaggio costruttivo. Faceva molto ridere, ma non volontariamente.
Luca Medici, che fa ridere solo volontariamente e non maramaldeggia sui meno talentuosi, quando gli hanno chiesto del politicamente corretto e del fatto che lui invece continuasse a dire tutto quel che voleva, non ha risposto che l’indicibile esiste solo per gli scarsi, e che se si nota che una battuta è offensiva è perché quella battuta non fa abbastanza ridere; ha detto solo: non avverto questo problema. È forse questo un articolo su Luca Medici rara eccezione d’un’umanità ormai tragicamente divisa in due, da una parte gli analfabeti con velleità che ci tengono a sciorinare riferimenti da liceo classico, dall’altra gli analfabeti con fierezza che non sanno chi sia Sansone e davanti ai compitini di Nunziante direbbero «supercazzola»? Forse è più un articolo sulla regola che non sbaglia mai: quella per cui, sull’internet, qualunque stronzata tu dica, nelle risposte ci terranno a superarti in idiozia.
Regola che a volte trabocca nella realtà, per esempio ieri in conferenza stampa, quando alla domanda più stupida del mondo Nunziante ha dato una risposta ancora più fessa. Regola smentita, a mia memoria, una sola volta. Tre settimane fa. Quando, sotto il post che dichiarava offensiva la battuta di Checco Zalone su “Schindler’s List”, è comparso un genio che ha chiesto: ma offensiva per chi? Per Spielberg?