di
Elisa Simonelli
L’attore e musicista romano racconta la sua Cinecittà: «Prima c’erano tanti set aperti, oggi con il Tax Credit restano a galla solo le grandi produzioni»
«La commedia italiana è finita quando i registi hanno smesso di prendere l’autobus. Da quando ho sentito questa frase di Mario Monicelli, non ho mai smesso di prenderlo». Stefano Fresi, 51 anni, attore, musicista, romano d’eccellenza, racconta quanto sia importante osservare le persone per fare il suo mestiere. Parla di cinema, teatro e di questo universo di sogni nella Capitale.
È cambiato il ruolo di Cinecittà?
«È stato da sempre il centro nevralgico del cinema mondiale. Oggi però c’è meno ricostruzione, si gira maggiormente nei luoghi reali, ma è indiscutibile che quando si entra a Cinecittà si respira la tradizione, che poi il cinema si porta dietro. Quando passi davanti allo studio 5, non puoi che pensare a Fellini».
È un posto museale dunque?
«Sì, ma è ancora attivo. È questo il bello».
Quanto ha inciso la scuola romana su di lei?
«Molto, ma in realtà mi hanno ispirato anche Totò, Tognazzi, Vianello, la commedia all’italiana in generale».
Quali degli attori romani l’ha influenzata di più?
«Alberto Sordi e Aldo Fabrizi, soprattutto la grande capacità di passare dal drammatico al grottesco. Pensi alla maschera meravigliosa di Fabrizi in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola oppure a Alberto Sordi in “Giudizio universale” di Vittorio De Sica, in cui interpreta il cinico venditore di bambini, un ruolo per cui lo detesti».
Qual è il problema del cinema italiano oggi?
«È che prima c’erano tanti set aperti, oggi con il Tax Credit restano a galla solo le grandi produzioni. Se la mela è marcia, buttiamo la mela, non la cassetta».
E come?
«Non so, introducendo maggiori sanzioni o controlli per aumentare la trasparenza, per garantire l’accesso ai fondi in qualche modo anche alle piccole produzioni. Devo dire che ci si sta lavorando. Mi piacerebbe che non ci fosse un discorso politico tra fazioni, ma un coordinamento che porti a risultati in un comparto che funziona. Voglio dire, non è una questione di curva Nord e curva Sud. Pensarla così al Paese non fa bene».
Che cosa funziona invece?
«Il cinema italiano è fatto di grandissimi professionisti. Non solo gli attori, ma anche i macchinisti, gli scenografi, i costumisti sono eccellenze. È un grande orgoglio all’estero e va tramandato».
Sabato scorso all’arena del Teatro di Tor Bella Monaca e ieri sera sul sagrato del Duomo di Orvieto, lei ha messo in scena uno spettacolo, “Dell’amore, della guerra e degli ultimi”, di cui è regista e interprete, insieme a Cristiana Polegri ed Egidio Marchitelli.
«Sì, attraverso canzoni, letture, monologhi, affrontiamo tre argomenti molto cari a De Andrè».
Chi sono gli ultimi?
«Gli esclusi, i migranti, le prostitute, tutti quelli che non arrivano a fine mese. Non è un loro fallimento. Se uno rimane disoccupato, nonostante abbia fatto tutti i passi necessari, allora non è lui il problema, ma è il sistema che non funziona».
E a che punto siamo oggi con l’amore?
«È ingarbugliato. Lo ha reso più difficile il mondo dei social. Prima mi innamoravo perché ti vedevo uscire dalla tua classe a scuola, mi informavo, ti studiavo e poi piano piano ti conoscevo. Oggi già so quali sono le tue abitudini, i tuoi gusti, la tua quotidianità, perlomeno ciò che tu hai deciso di mostrare, dimenticandomi anche che non sempre è reale».
È vero che manca un’educazione sentimentale?
«Assolutamente. Ci siamo seduti culturalmente e purtroppo anche le menti meno maschiliste, due o tre retaggi ce l’hanno».
Quale potrebbe essere la fonte da cui partire?
«Il rispetto, quella è la fonte».
Sabato sera era in scena a Tor Bella Monaca, domani sarà all’Ambra Jovinelli con Emanuela Fresi, sua sorella e Toni Fornari, suo cognato, con un repertorio musicale molto vasto.
«Sì, il trio Favete Linguis al completo. Raccontiamo i nostri 30 anni di carriera, con canzoni del quartetto Cetra, passando per i più grandi successi della commedia musicale italiana, fino ad arrivare a Sanremo».
Due teatri e due zone di Roma diverse. Quali sono le differenze?
«Per me il Teatro di Tor Bella Monaca è molto importante perché ho debuttato lì a 17 anni, d’altro canto l’Ambra Jovinelli è uno dei posti più accoglienti del mondo con uno staff stupendo. È un teatro virtuoso, con una bella programmazione, ma soprattutto è una zona multietnica, viva, piena di difficoltà, ma di confronto. Portare cultura in una zona così è una bella missione e sta andando benissimo».
Quanto incide il quartiere in cui si è cresciuti nella propria formazione professionale?
«Nella mia ha inciso. Sono nato e cresciuto a Centocelle. Era complicato, Giancarlo De Cataldo ci racconta che negli anni ‘70-’80 era una delle piazze di spaccio. Ma era colorato. Mia madre, per informarsi su dove fossi, chiedeva ai vicini: “Stefano l’ho visto passà de qua”. C’era radio serva che le faceva il resoconto. Mi sentivo protetto, anche se sapevo che fuori c’erano i leoni».
Che cosa le ha insegnato?
«Incontrare la comunità degli artigiani senza snobberie mi ha fatto vivere meglio i rapporti con le persone e predispormi all’incontro. Fondamentale nel mestiere dell’attore. E poi, in quelle situazioni succedono cose che ti fanno ridere».
Tipo?
«Erano gli anni’70, il classico deserto dell’agosto romano dell’epoca. Si sente arrivare un rumore assordante di un vecchio motore. Ci affacciamo e vediamo una 500 che si apre letteralmente come un uovo. Da lì rotola via un bambino. Il pasticcere accanto esce urlando e cerca di recuperarlo. Lo prende e gli casca sopra».
Un po’ grottesco in effetti.
«Un’altra volta si sente uno schianto di una macchina e mio padre: “Questo s’è fatto male!”. Si affaccia e si accorge che il palo, contro cui l’automobile si era scontrata, si era completamente piegato in due, abbattendosi su quella di mio padre».
E un aneddoto su un set romano?
«Una volta il regista ci dice: “Facciamone un’altra!” E il macchinista: “E basta, so’ le 10 de notte”».
Il set romano che hai amato di più?
«”Smetto quando voglio”: eravamo tanti, tutti amici, ci siamo goduti il viaggio».
Tra i suoi colleghi romani chi sente più vicino?
«Edoardo Leo, ma assolutamente anche Valerio Mastandrea e Marco Giallini, non posso non pensare a “Ogni maledetto Natale”».
Che cosa si porta della romanità nel suo mestiere?
«Eh, il romano ti suggerisce tanto per questo lavoro. L’ironia romana la vedi dappertutto, l’autista dell’Atac, l’operaio, l’impiegato che va al lavoro, ognuno se ne può uscire con qualcosa all’improvviso che ti lascia sorpreso e ti strappa una risata. Ai romani non gliene frega niente, sono disincantati. Della serie: “È arrivato il re”. E il romano risponde: “E capirai, noi c’avemo er Papa!”».
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4 agosto 2025
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