Il microchip retinico sviluppato da Science Corporation permette di restituire parzialmente la vista ai pazienti affetti da degenerazione maculare senile

I chip incorporati e le interfacce BCI rappresentano, secondo il parere di molti, il futuro (più o meno prossimo) della medicina. Lo abbiamo visto di recente con Neuralink, il famoso chip cerebrale della startup di Elon Musk utilizzato su pazienti tetraplegici, o Synchron con il suo Stentrode, che ha permesso ad un paziente con sclerosi laterale amiotrofica di controllare un iPad con il pensiero, migliorandone sensibilmente la qualità di vita e (soprattutto) le possibilità di interazione con familiari e amici. 

A loro si è recentemente aggiunto Prima, un microchip retinico sviluppato da Science Corporation (giovanissima startup fondata a San Francisco da Max Hodak, ex presidente di Neuralink oltretutto) in grado di «restituire» la vista a numerosi pazienti con malattie neurodegenerative. 



















































Questo è il caso di Alice Charton, pensionata parigina di 87 anni affetta da degenerazione maculare senile (conosciuta con l’acronimo DMS), una patologia che compromette significativamente la macula (la componente della retina deputata alla visione centrale) di più di 200 milioni di persone nel mondo, fino ad oggi ritenuta incurabile. Grazie all’impianto di Prima, Alice ha avuto la possibilità di tornare (parzialmente) a vedere, e questo le è valso perfino la copertina del TIME.

Come funziona il microchip di Science Corporation

È bene fare una doverosa premessa e rimanere coi piedi per terra: il microchip di Science Corporation non fa «miracoli» e non restituisce totalmente l’acuità visiva. Sebbene non riesca a riconoscere i volti e camminare autonomamente per strada senza ausili, però, l’impianto di Hodak le permette di leggere per circa due ore al giorno, ripartite tra la mattina e il pomeriggio. «Questo mi ha dato speranza», dichiara Alice, e aggiunge entusiasta: «Mi ha letteralmente cambiato la vita». 

Il chip in questione è minuscolo, misura per la precisione 2 x 2 millimetri e conta circa 400 elettrodi: i chirurghi lo impiantano con modalità mininvasive direttamente all’interno della zona della macula affetta dalla patologia degenerativa. A quel punto, i pazienti come Alice Charton sono chiamati a indossare un particolare paio di occhiali dotati di fotocamera, che inviano segnali al microchip sotto forma di luce infrarossa

In questo caso, il microchip retinico funge da vero e proprio «ponte di raccordo» tra i segnali luminosi dell’ambiente e i neuroni della retina, rubando il lavoro ai fotorecettori danneggiati: Prima converte così quegli stessi segnali infrarossi in input elettrici, che vengono così inviati al nervo ottico per trasformarli in immagini visibili. 

All’interno di una tipica tavola optometrica (quella che viene utilizzata all’esame della vista, tanto per intenderci), un paziente «sano» dovrebbe essere normalmente in grado di leggere senza problemi ad una distanza di circa 4 metri. Di contro, i pazienti affetti da degenerazione maculare senile riescono a malapena a leggere le lettere più grandi ad un metro di distanza: nel corso di uno studio sperimentale (pubblicato sul New England Journal of Medicine) si è visto che, con Prima, l’80% circa dei pazienti coinvolti sono stati in grado di leggere fino alla quinta riga della tavola ottotipica. 

Si tratta a conti fatti di un risultato decisamente ragguardevole, tenendo conto soprattutto di esperimenti simili (ma non altrettanto di successo) condotti in passato. Alcuni impianti risalenti al 2005, infatti, portavano un aumento della sensibilità alla luce nei pazienti a cui venivano sottoposti. 

Ad oggi, la visione garantita da Prima è monocromatica, coprendo esclusivamente il bianco, il nero e le loro varie sfumature intermedie: la speranza, per il futuro, è di mettere a punto tecnologie in grado di restituire anche la visione dei colori.

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22 dicembre 2025