di
Diana Cavalcoli

Il tema è stato sollevato dal ricorso di un dipendente Amazon con qualifica di quadro, licenziato per giusta causa per aver violato gli obblighi di confidenzialità relativi a un processo di selezione del personale

La chat aziendale può essere considerata a tutti gli effetti uno strumento di lavoro e, come tale, i suoi contenuti possono essere utilizzati anche a fini disciplinari, compreso il licenziamento per giusta causa. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nella sentenza dell’11 dicembre scorso, offrendo alcuni chiarimenti sui limiti dei controlli datoriali e sulla tutela della riservatezza dei lavoratori.

Il caso

La vicenda nasce dal ricorso di un dipendente Amazon con qualifica di quadro, licenziato per giusta causa per aver violato gli obblighi di confidenzialità relativi a un processo di selezione del personale. Secondo l’azienda, il lavoratore aveva diffuso informazioni riservate attraverso una chat aziendale. Un comportamento ritenuto in violazione delle policy interne e dei doveri di diligenza e fedeltà previsti dagli articoli 2104 e 2105 del Codice civile. Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d’appello avevano respinto l’impugnazione del licenziamento, ritenendo legittimo l’utilizzo delle conversazioni estratte dalla chat aziendale. Una decisione ora confermata in terzo grado.



















































Nel rigettare il ricorso del lavoratore, la Cassazione ha richiamato l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori precisando che i dati raccolti nelle comunicazioni aziendali possono essere utilizzati “a tutti i fini”, inclusi quelli disciplinari, a condizione che siano rispettati due requisiti fondamentali: la prima è la qualificazione della chat aziendale come strumento di lavoro, la seconda è che il lavoratore sia stato adeguatamente informato sulle modalità d’uso degli strumenti e sui possibili controlli e che siano osservate le disposizioni in materia di protezione dei dati personali, previste dal d.lgs. 196/2003. 

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23 dicembre 2025