Doveva essere una rivoluzione di civiltà, ma per ora resta soltanto un gigantesco vuoto burocratico. A due anni dall’approvazione della legge sull’oblio oncologico, il diritto di oltre un milione di italiani guariti dal cancro di non essere più etichettati come “malati” sembra essere caduto – perdonate il gioco di parole – nell’oblio. All’appello mancano tre provvedimenti cruciali che erano attesi per l’estate del 2024 e che non sono mai arrivati. Il primo è il decreto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, che dovrebbe disegnare politiche attive per assicurare uguaglianza di opportunità nell’inserimento e nella permanenza nel lavoro, nonché nella carriera. Gli altri due spettano invece al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr) e all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass), necessari per uniformare i formulari bancari che ancora oggi interrogano i cittadini sul loro passato oncologico. «È un ritardo davvero incomprensibile, che pesa sulla vita di moltissimi cittadini», commenta Elisabetta Iannelli, segretario generale di Favo (Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia). Come quella di Laura Marziali, 36 anni, attivista e fondatrice dell’associazione C’è Tempo OdV, che ha trasformato un muro di pregiudizi in una battaglia di civiltà per migliaia di ex pazienti. «Chi guarisce dal cancro resta un “sorvegliato speciale” per banche, assicurazioni e Stato», racconta Marziali, che ha sperimentato questa discriminazione proprio sulla sua pelle. «Nonostante fossi guarita mi è stato negato un finanziamento per comprare un auto e subito dopo mi è stata negata la possibilità di adottare un bambino», spiega.
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Il paradosso è che la medicina corre, mentre la burocrazia zoppica. «Oggi si può ben dire che di cancro si guarisce perché sono migliorate le aspettative di vita di chi lo ha affrontato e superato», dichiara Paolo Tralongo, presidente del Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri. «Motivo per cui vanno eliminate le forme discriminatorie che inficiano il ritorno alla normalità ed i cui riflessi negativi sono multidimensionali cioè psicologici, sociali ed economici», aggiunge.
Il punto centrale è che oggi la guarigione è un concetto scientifico misurabile. «Il decreto legge sull’oblio oncologico n.193 del dicembre 2023 ha sancito che in Italia si è considerati guariti dal cancro quando sono trascorsi un certo numero di anni dalla fine delle cure», spiega Tralongo. «Per guarito si intende il raggiungimento di una condizione per la quale l’attesa di vita del paziente oncologico è uguale a quella della popolazione generale dello stesso sesso e di pari età», aggiunge. Il tempo necessario per raggiungere questo status viene definito «tempo alla guarigione». La legge riconosce ai cittadini guariti da un tumore il diritto a non dichiarare la precedente malattia dopo dieci anni dalla fine delle cure (5 anni per chi ha ricevuto la diagnosi prima dei 21 anni). «Ma può essere ottenuto dopo un periodo più breve anche di un anno, come accade per esempio per tumori al colon e alla mammella allo stadio iniziale», sottolinea Tralongo.
Tuttavia, in assenza dei provvedimenti attuativi necessari, questo diritto resta sulla carta. «È inaccettabile che provvedimenti fondamentali per garantire loro l’accesso equo al credito o la tutela assicurativa siano ancora fermi, ostaggio di una burocrazia che ignora il valore umano di questa norma», dice Iannelli.
IL CASO
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La questione lavoro – su cui si attendono i ministeri del Lavoro e della Salute – è la più urgente perché la platea si allarga. «L’accezione è più ampia perché non parla solo di guariti», spiega Iannelli. «Se consideriamo che tutti coloro che hanno avuto una diagnosi sono circa 4 milioni, togliamo un milione di guariti e i nuovi casi, parliamo di altri 2 milioni abbondanti di persone: i cronici o chi è in follow-up. Il ritardo riguarda dunque una massa enorme di cittadini».
Anche dove i decreti sono arrivati, come nel caso delle adozioni, il risultato è controverso. Il regolamento attuale impone di essere già legalmente «guariti» per presentare domanda, tagliando fuori chi, pur stando bene, non ha ancora maturato i tempi previsti dalla legge (10 anni, o 5 per chi si è ammalato da giovane). «Se una donna ha un tumore al seno a 30 anni e deve aspettarne 10 per fare domanda di adozione, spesso diventa troppo tardi», riflette Iannelli. Un ostacolo che Stefania Gori, tra le fautrici della legge con la ROPI (Rete Oncologica Pazienti Italia), definisce parte di una «fatica di Sisifo». «Oggi chiediamo che si superino gli ultimi scogli perché entro il 2025, come chiede l’Europa, questa legge diventi realtà. È un grande segno di civiltà in un Paese dove la mortalità cala e la guarigione è un dato di fatto», conclude Gori.