di
Valentina Santarpia

Il ragazzo aveva 19 anni quando si imbarcò illegalmente per tentare la fortuna in Italia. Arrivò con un baarcone carico di migranti morti, e venne identificato e condannato come scafista. Ora la grazia parziale dal capo dello Stato: dovrà scontare altri nove anni, e non 20, potrà accedere alle pene alternative

Il suo sogno era di arrivare in Europa, trovare una squadra di calcio e diventare un giocatore professionista, magari emulando uno dei suoi idoli ammirati fino ad allora solo in tv. Invece è stato condannato come scafista.

Aveva vent’anni Alaa Faraj Abdelkarim Hamad quando quel sogno s’è trasformato in un incubo. Era il 2015. Da quel giorno Abdelkarim non ha mai calcato un campo di calcio e ha vissuto tra le mura della cella di un carcere. Per lui la condanna a 30 anni di detenzione per concorso in omicidio plurimo e violazione delle norme sull’immigrazione, assieme a due compagni di viaggio e ad altri imputati per quella che fu definita la «strage di ferragosto», raccontata nel film Fuocoammare: 49 morti asfissiati su un barcone stracarico di migranti. A nulla sono valse le tesi discusse nel processo dagli avvocati della difesa che hanno sempre sostenuto l’innocenza del giovane. Secondo l’ong seawatch «Alà e i suoi compagni, in quanto libici, furono subito individuati come presunti responsabili. Le accuse si basavano sulla profilazione razziale degli imputati e la manipolazione di poche testimonianze raccolte immediatamente dopo lo sbarco, da persone sotto shock, poi mai più ascoltate nel corso dell’intero processo. Sulla base di queste prove fragili, sono stati condannati in via definitiva a 30 anni di reclusione».



















































A nulla è servito anche il tentativo, fallito, delle autorità di Bengasi che cinque anni fa proposero all’Italia lo scambio dei tre amici condannati, tra cui Abdelkarim – ritenendo ingiusta la condanna – con i 18 pescatori che erano a bordo di due pescherecci di Mazara del Vallo (Trapani) sequestrati dai libici perché avrebbero pescato in acque di loro competenza. 

La storia del migrante comincia quando decide di partire con due amici, anche loro calciatori, dalla Libia in guerra per rincorrere il suo sogno di diventare professionista. L’unico modo, però, era imbarcarsi su una delle carrette del mare e attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia. All’insaputa della famiglia paga mille euro agli scafisti di Zuwara, a ovest di Tripoli, racconterà agli inquirenti. Dopo 5 o 6 ore di navigazione qualcosa non funziona, su quel barcone partito il 14 agosto del 2015, avviene la strage di migranti: 49 persone arrivano morte asfissiate nella stiva piena all’inverosimile. Le vittime vengono scoperte quando l’imbarcazione in difficoltà, segnalata a 135 miglia a sud di Lampedusa, viene soccorsa. A bordo della nave norvegese Siem Pilot arrivano in Sicilia, il 15 agosto, 313 migranti e 49 cadaveri. All’inizio il giovane libico viene sentito come testimone, poi lui e i suoi due amici si ritrovano ad essere indagati. «Quando sono entrato in tribunale e ho letto: la giustizia è uguale per tutti, mi sono sentito tranquillo», scrive Alla. Due anni dopo la Corte di Assise di Catania lo condanna a 30 anni di carcere, sentenza confermata in appello nel 2020 e poi in via definitiva dalla Cassazione. 

«Ancora non so se sono pentito o no di quella scelta, (alla luce di ndr) come sono andate le cose, e la rovina della mia vita di farmi 30 anni da innocente», aveva scritto in una delle sue prime lettere alla docente dell’università di Palermo Alessandra Sciurba. Ne sono seguite altre ventisette che sono diventate un libro, «Perché ero ragazzo», Sellerio editore. Lettere scritte nell’italiano zoppo che il ragazzo ha imparato dietro le sbarre e la professoressa ha voluto mantenere intatto. «Ho incontrato un ragazzo stupefacente, che non solo è riuscito a rimanere in piedi in questo incubo, ma non ha mai smesso di sperare e credere nella giustizia italiana, nel sogno di arrivare in un Paese in pace e democratico dove i diritti valgono per tutti», ha raccontato Sciurba, coordinatrice della Clinica legale diritti e migrazioni dell’Università di Palermo. «Rileggendo i suoi testi mi sono resa conto che quei testi sono un tesoro prezioso- Compongono una storia incredibile e allo stesso tempo emblematica di come la legge che punisce il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare sia stata scritta con la penna della propaganda, tant’è che ha colpito soprattutto le ong che fanno soccorso in mare e i poveri passeggeri che vengono trattati come capri espiatori, non certo i veri trafficanti. Quelli li conosciamo: sono Bija, Al-Kikli e Almasri, che l’Italia invita, cura nei nostri ospedali e riporta a casa con l’aereo di Stato». 

Sulla vicenda di Alaa è intervenuto anche Luigi Ciotti, che aveva chiesto «un supplemento di verità e giustizia per chi oggi paga un prezzo sproporzionato, inaccettabile”». 

«Sono stati condannati a morte, de facto», sottolineava seawatch, chiedendo l’intervento del presidente della Repubblica, che è arrivato ieri. Il capo dello Stato ha concesso una grazia parziale al libico, risparmiandogli 11 anni e 4 mesi di carcere: in pratica, invece di altri venti anni da scontare, gliene restano nove. In questo modo potrà accedere alle pene alternative, come la semilibertà per scontare il terzo della pena che gli resta. «Nel concedere la grazia parziale, che ha estinto una parte della pena detentiva ancora da espiare», fa sapere il Quirinale, «il Capo dello Stato ha tenuto conto del parere favorevole del Ministro della Giustizia, della giovane età del condannato al momento del fatto, della circostanza che nel lungo periodo di detenzione di oltre dieci anni sinora espiata dall’agosto del 2015, lo stesso ha dato ampia prova di un proficuo percorso di recupero avviato in carcere, come riconosciuto dal magistrato di sorveglianza, nonché del contesto particolarmente complesso e drammatico in cui si è verificato il reato». Una circostanza evidenziata anche dai Giudici della Corte d’appello di Messina che, nel rigettare l’istanza di revisione per ragioni processuali, hanno sottolineato che per «ridurre lo scarto indubbiamente esistente tra il diritto e la pena legalmente applicata e la dimensione morale della effettiva colpevolezza», si può fare ricorso solo all’istituto della grazia che consente di ridurre o commutare una parte della pena». Dunque, anche il Ministero della Giustizia ha dato parere favorevole alla grazia per il giovane studente libico. Eppure negli ambienti leghisti qualcuno ieri scalpitava, manifestando «perplessità». 


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23 dicembre 2025 ( modifica il 23 dicembre 2025 | 10:52)