La nuova creatura di Vince Gilligan ci ha rapito non solo per come è scritta e girata, ma anche per quello che ci smuove dentro

Non stiamo a girarci intorno: questo è un articolo furbino.
Nel senso che volevo scrivere qualcosa il 23 dicembre, non sapevo su che argomento, e allora ho deciso di buttare giù una recensione “finale” della prima stagione di Pluribus anche se l’ultimo episodio andrà in onda solo domani, il 24 dicembre (doveva essere il 26 ma l’hanno anticipato, probabilmente per togliersi dal chiacchiericcio sulla seconda tranche di Stranger Things 5).

Allo stesso tempo, nonostante la paraculata che mi consentirà di passare un Natale sereno (magari farò un’aggiunta a questo articolo dopo aver visto l’ultimo episodio), la recensione “anticipata” si può motivare anche in altro modo: scrivere di Pluribus adesso ha comunque senso, proprio perché gli episodi visti finora hanno già dato molto di per sé, a prescindere da dove andrà a finire la prima stagione, se bene o male, se in un senso o nell’altro.

Se le serie tv, più dei film, riguardano il viaggio che si fa, piuttosto che il punto in cui si arriva, beh allora il viaggio che stiamo facendo con Pluribus è talmente bello, talmente significativo, che la prima posizione in classifica, raccontata anche nell’ultima puntata del 2025 di Salta Intro, è doverosa anche senza sapere come andrà a finire.

Del primo episodio, e della sua capacità di stimolare riflessioni immaginifiche all’interno di una cornice di genere segnata dallo stile inconfondibile di Vince Gilligan, avevamo già parlato. E se siete ascoltatori o ascoltatrici del podcast, o follower della pagina TikTok di Serial Minds, mi avete già sentito sproloquiare puntata per punta.

Il discorso da fare era proprio quello, di un viaggio intrapreso da una protagonista bloccata in una situazione assurda, che però sfidava e sfida certe regole di genere e certe aspettative di Carol e degli spettatori.
Il personaggio interpretato da Rhea Seehorn, una scrittrice ombrosa e pessimista che si fa prendere dal timore di un’”invasione aliena” (con le virgolette perché non è proprio così) che potrebbe distruggere il mondo, si trova a constatare, pezzo per pezzo e giorno dopo giorno, che la sua vita non sembra essere in pericolo, che la mente alveare che ha posseduto gli altri esseri umani la tratta con gentilezza e rispetta le sue volontà, che gli altri immuni fanno una vita tranquilla o addirittura agiata, sfruttando l’indole servizievole degli Altri.

Un continuo e sistematico ribaltamento di prospettive, che trova il suo culmine quando Carol scopre i numerosi corpi umani fatti a pezzi come tagli di carne dal macellaio. Convinta di aver svelato il vero volto dei cattivi, Carol si trova di fronte un messaggio registrato da quello che una volta era John Cena (!!!) che le spiega con grande tranquillità che sì, certo che gli Altri si cibano anche di corpi umani, ma non persone che hanno ucciso, bensì uomini e donne già morti per altre cause che diventano cibo nel momento in cui gli Altri non vogliono uccidere nessuno, né piante né animali né tanto meno persone.
Una logica ferrea, ineccepibile, e certamente non “malvagia”, almeno dal punto di vista della mente alveare.

Le principali critiche che vedo rivolgere a Pluribus sono due: che è lenta, e che non succede niente.
Sulla lentezza, intesa anche tecnicamente (lunghezza delle inquadrature, bassa frequenza dei dialoghi ecc), c’è poco da discutere, Pluribus non è certo rapidissima. È una cifra stilistica di Vince Gilligan, che a sua volta, ai tempi di Breaking Bad (anche lei definita lenta da molti), si inseriva perfettamente nella poetica di AMC, una rete che di quella lentezza aveva fatto cifra stilistica riconoscibile e di grande impatto (era comune anche alle prime stagioni di Mad Men e The Walking Dead).

Poi certo, chi muove questa critica sottintende che “lento” sia uguale a “brutto”, o “noioso”, quando non è assolutamente detto. Per me gli ampi paesaggi silenziosi del Nuovo Messico, l’attenzione rivolta al silenzio dei personaggi e all’esplorazione dei loro volti, il contrasto inevitabile fra la frenesia della nostra vita contemporanea, e l’improvvisa staticità di un mondo privo di conflitto (inteso sia in senso concreto-militare sia metaforico), sono tutti elementi di una bellezza straordinaria, roba da perderci la testa, da comprare un biglietto aereo. Le puntate durano circa 45 minuti, e a me sembrano tutti episodi da 15 per la semplicità con cui me li bevo e il desiderio che mi lasciano di vederne ancora.

Ma qui si arriva al secondo (non-)problema, l’idea cioè che in Pluribus non succeda niente. Lasciatemi essere chiaro: in Pluribus succede di tutto, continuamente, in tutte le puntate. Molto semplicemente, non si tratta di esplosioni, inseguimenti, gente che si spara o si urla continuamente addosso.
Pluribus è drama-thriller psicologico e filosofico, di suprema sottigliezza e intelligenza, in cui il viaggio che dobbiamo compiere è soprattutto quello dentro la mentre di Carol, che è in un subbuglio tale, e in una tale necessità di cambiare continuamente le proprie percezioni, aspettative e analisi della realtà, da rendere il contrasto fra la tranquillità del fuori e il tumulto del dentro una dinamica ricchissima di continui stravolgimenti e consapevolezze. Altro che “non succede niente”.

Succede talmente tanta roba, in questa serie, e ci sono così tante scene divertenti, inquietanti, densissime di significato, che provare a riassumerle tutte in un solo articolo diventa impossibile. In caso, davvero vi consiglio di recuperare le puntate del podcast.
Però possiamo delineare una traiettoria di quel famoso viaggio, che riguarda solo in parte la fantascienza.
Le montagne russe su cui Carol si trova dopo la morte della compagna partono dalla (falsa) credenza di non avere bisogno di nessuno, e passano attraverso varie fasi: il desiderio di essere l’eroina della storia (cosa di cui, con deliziosa ironia, a quasi tutti gli altri immuni frega niente), la paura di poter essere cancellata, il sollievo nello scoprire che la sua individualità sembra essere al sicuro, la speranza di poter vivere effettivamente una vita solitaria e felice e, infine, la presa di coscienza che no, qualcuno serve, fosse anche l’esponente di una mente alveare.

In ognuno di questi stadi, per chi guarda c’è la necessità di farsi mille domande non solo in relazione al cosa succederà dopo, ma anche riguardo gli elementi più filosofici della serie. Che non c’entrano solo col “cosa farei io al suo posto”, ma toccano corde più profonde, fino alla stessa definizione di Bene e Male, che diventano categorie molto plastiche e malleabili quando la coscienza di Carol viene messa a confronto con una mente collettiva che non la sfida come una nemica, ma si pone come un’interlocutrice che ha motivazioni molto salde e molto logiche.

Senza contare, naturalmente, la capacità di Pluribus di toccare temi politici di scottante attualità, illustrati da metafore semplici eppure potenti: in quasi ogni dialogo e situazione si parla di ambiente, di sistemi di governo, di gestione delle risorse, di libertà individuale e autodeterminazione, di morale e vivere collettivo, di intelligenza artificiale (a cui pensiamo ogni volta che Carol ha a che fare con a una mente quasi onnisciente che la tratta sempre e solo con gentilezza).
E poi c’è Manousos, l’unico immune davvero ribelle, diciamo “come e più di Carol”, che nel penultimo episodio diventa la spia di un ulteriore livello del discorso, ancora più sottile, ancora più poderoso.

Il penultimo episodio stagionale di Pluribus sembra quello in cui succede di meno, eppure, ancora una volta, è forse quello più importante, più dirompente.
Sul fronte Carol, la donna si avvicina sempre di più alla mente alveare, secondo una logica da commedia romantica che era evidente già nei primi episodi, ma che qui esplode del tutto: pur essendo ancora diffidente nei confronti degli Altri (sulla sua lavagna scrive ancora, con foga, che mangiano le persone, come un reminder per non lasciarsi troppo andare), alla fine Carol inizia una specie di storia d’amore con Zosia, che per prima le ha dato un bacio proprio quando Carol si stava incazzando di nuovo (dettaglio, questo di chi ha fatto la prima mossa, non secondario).

Allo stesso tempo, anche la mente alveare di cui Zosia è esponente e in qualche modo ambasciatrice, sembra avvicinarsi a Carol: lo sforzo per usare il pronome “io”, il bacio, l’interesse per il nuovo libro della scrittrice (particolarmente atteso da un cervellone planetario che altrimenti conosce già tutto), lo slancio apparentemente molto umano verso le stelle, con la sincera curiosità e gratitudine per il misterioso popolo che ha mandato sulla Terra il codice per produrre il virus che ha creato la mente alveare.

Una specie di idillio romantico, dopo molta diffidenza, che pare rotto solo dall’ostinazione di Manousos, che proprio non ci sta a farsi aiutare dagli Altri, e che continua a portare avanti una battaglia solitaria che, in questo episodio, ci è parsa sempre più grottesca, ostinata, testarda, perfino esagerata.
E non è mica un caso.

Al momento di pubblicare questo articolo non sappiamo cosa succederà nell’ultimo episodio e, soprattutto, nel resto della serie. Le nostre aspettative di genere (“Sono tutti cattivi!”) saranno alla fine rispettate, ristabilendo il Sacro Ordine delle storie di fantascienza? Oppure Gilligan ci stupirà davvero con una storia d’amore cosmica, che magari sarà minacciate da qualcun Altro?

Ma più ancora di queste ipotesi, e delle moltre altre che si potrebbero fare, a colpire è il fatto che, nel corso di queste settimane, il percorso di Carol è stato anche il nostro. Usando gli strumenti della fiction e dei generi, infilando la commedia romantica nella fantascienza inquietante, Pluribus e la mente alveare ci hanno già manipolato. Se all’inizio ci aspettavamo di vedere la rivolta degli ultimi umani contro gli invasori, ora facciamo il tifo per Zosia e Carol, e l’intransigenza di Manousos ci sembra autolesionista (e tecnicamente lo è, visto che stava per rimetterci la pelle).

E cos’è questo, se non il modo in cui tutte quelle forze oscure del nostro mondo, dalle forme più seducenti del capitalismo ai canti delle sirene delle IA, ci manipolano ogni giorno, anestetizzando la nostra rabbia, indirizzando le nostre percezioni, limitando la nostra lotta a pochi post sui social, trasformando le loro imposizioni in copie furbe delle nostre scelte?

Io non so come finirà la stagione e come finirà la serie. Non posso nemmeno escludere che il finale di stagione non ci piaccia, o incappi in qualche errore grossolano che ora non saprei immaginare. Magari l’incontro fra Carol e Manousos avverrà solo all’ultimo istante e rimarremo troppo affamati, oppure il sudamericano ucciderà Zosia dandoci una sorpresa “troppo” forte, oppure ancora, più semplicemente, non troveremo abbastanza idee frizzanti per entusiasmarci (sto inventando a caso, sia chiaro).

E nonostante questa sospensione, per me Pluribus è la novità dell’anno. Perché nelle serie tv possiamo cercare tante cose, tutte legittime e tutte funzionanti anche da sole: le risate, le lacrime, la creatività, le buone interpretazioni ecc ecc. Ma è raro che arrivi tutto insieme. La poetica, luminosa regia di Vince Gilligan, l’interpretazione magistrale di Rhea Seehorn, l’ironia discreta e pulita di molte scene, l’inquietudine di altre, la curiosità e la suspense, la capacità di spiazzare e sovvertire le aspettative, la stratificazione della proposta concettuale e filosofica, che non diventa mai troppo complicata, eppure resta sempre feconda.

Per quanto ci siano altre serie del 2025 di cui ho amato ogni istante (The Studio), o che si sono rivelate importantissime dal punto di vista politico e sociale (Adolescence), o che hanno spinto in avanti il limite di ciò a cui può aspirare una serie italia (M – Il figlio del Secolo), in nessun caso ho aspettato l’episodio successivo con la stessa leggerezza, curiosità, e certezza che sarei stato divertito, stimolato e coinvolto come con Pluribus.
E considerando che è un prodotto creato dalla stessa persona che ha già firmato una delle serie migliori di sempre, non posso che levarmi il cappello di fronte a Vince Gilligan e dire: il primo posto è tuo, ora non ci deludere.