Pur fondamentale nella forza di una nazione, l’economia non può sostituire il potere militare nel perseguimento di obiettivi politici. Il potere militare, rischioso e costoso, rimane l’unico strumento capace di alterare gli equilibri strategici in tempi brevi. Tuttavia, la sua efficacia dipende dalla capacità di integrarlo con una visione politica che ne mitighi le conseguenze destabilizzanti. È tornato al centro della scena ma solo la deterrenza può evitare che il mondo deragli
Alla fine anche Trump, presentatosi come il presidente della pace, è costretto a usare la forza militare oppure a ventilarne l’ipotesi. L’invio di sottomarini nucleari che tengono sotto tiro la Russia è l’ultima manifestazione del destino ineluttabile di chi detiene il maggior potere militare al mondo. Un paradosso da cui Trump non riesce ad uscire: offrire patti diplomatici e manipolare l’economia mondiale non fa accadere la pace, anzi sembra più probabile ottenere tregue con bombardamenti e minacce nucleari.
L’attuale scenario di fatto evidenzia un mutamento paradigmatico nelle dinamiche del potere globale. L’economia, spesso celebrata come il principale strumento di influenza nella globalizzazione, mostra oggi i suoi limiti, specialmente quando declinata attraverso il protezionismo.
Al contempo, il potere militare riacquista una centralità che sembrava superata, ridefinendo le priorità strategiche delle potenze mondiali. La crisi ucraina ha messo a nudo la vulnerabilità europea: le sanzioni contro la Russia, pur incisive, non hanno prodotto un cambiamento immediato nel comportamento di Mosca, mentre il protezionismo economico, adottato in risposta alle crisi globali, ha spesso amplificato le difficoltà interne, come l’inflazione e la perdita di competitività.
L’Europa sembra intrappolata in un paradosso: la sua forza economica non si traduce in influenza politica, e la riluttanza dei paesi europei ad utilizzare la potenza militare li espone a ricatti strategici come l’accordo sui dazi ampiamente dimostra. Un accordo che può essere imposto da Washington proprio perché nessuno degli stati europei ha una “sovranità militare” rispetto all’America da cui la sicurezza di tutti ancora dipende. È un aspetto questo che troppo spesso viene tralasciato quando si analizzano le debolezze del vecchio continente. L’impotenza militare genera anche impotenza commerciale.
Gli Stati Uniti, invece, hanno scoperto presto che il sanzionismo economico non è sufficiente a piegare le autocrazie come Russia e Iran. La Russia ha diversificato i suoi mercati energetici verso Cina e India, l’Iran continua a sfruttare le sue reti regionali per eludere le pressioni economiche. In questo contesto, il potere militare Usa rimane indispensabile: la forza economica si disperde quando non sostenuta da una proiezione militare credibile. Vale anche quando l’elettorato sembra recalcitrante.
Le guerre di Israele rappresentano un ulteriore caso di studio. La superiorità tecnologica ed economica non è bastata a garantire una vittoria contro avversari asimmetrici. Le operazioni belliche, accompagnate da costi umani ed economici elevatissimi, sottolineano come il potere militare sia non solo un complemento, ma un elemento centrale per il raggiungimento di obiettivi politici. Tuttavia, l’escalation rischia di alimentare un ciclo di alienazione delle popolazioni civili, mostrando che la forza armata ha i suoi limiti senza una strategia politica di lungo termine col rischio di produrre forever wars per citare un recente saggio per Foreign Affairs di Lawrence Freedman.
Questi scenari convergono verso una conclusione: l’economia, fondamentale nella forza di una nazione, non può sostituire il potere militare nel perseguimento di obiettivi politici. Il protezionismo, se da un lato protegge gli interessi nazionali, dall’altro isola e frammenta, riducendo la capacità di costruire alleanze efficaci.
È il rischio che si assume Trump: chiedere agli alleati di pagare di più per l’accesso al mercato americano può far deragliare questi o in una accresciuta impotenza, e dunque trasformarli in alleati meno forti, o nella ricerca di alleanze internazionali più redditizie.
Al contrario, il potere militare, pur rischioso e costoso, rimane l’unico strumento capace di alterare gli equilibri strategici in tempi brevi.
Tuttavia, la sua efficacia dipende dalla capacità di integrarlo con una visione politica che ne mitighi le conseguenze destabilizzanti. D’altronde quello che è il più grande teorico della guerra moderna, Carl Von Clausewitz, era il primo a sottolineare che senza intelligenza politica i conflitti rischiano di andare fuori controllo e diventare assoluti.
La lezione di questo tempo è chiara: il potere militare è tornato al centro della scena e nessuno può farne a meno. Tuttavia, soltanto il mantenimento di deterrenza, equilibri e alleanze può evitare che il mondo deragli. Vale per gli istinti guerrafondai dí Netanyahu ma anche per quelli pacifisti di Trump. La guerra, per dirla con Eraclito, resta ancora il padre di tutte le cose.
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