di
Francesco Battistini

Enrico Vallaperta, responsabile locale di Medici Senza Frontiere, racconta il freddo e il buio in Ucraina. Negli ospedali, ma anche nelle scuole e nelle case

Solstizio d’inferno. A Dnipro, cinquecento chilometri a sud est di Kiev, nella città che con Zaporizhzhia fa da bastione irrinunciabile della difesa ucraina, il giorno più corto dell’anno è stato anche il più lungo. S’è fatto buio presto, il 21 dicembre. E molte caldaie non si sono accese, perché erano state colpite due centrali elettriche. Poi i droni russi han tirato su un uomo d’86 anni e su una donna di 65, ma non è stato tanto quello, purtroppo ci s’è abituati: la brutta novità è che sull’app dei blackout sono state postate le tabelle coi nuovi orari d’interruzione dell’energia elettrica. E l’inverno-inferno, il peggiore di questi quattro anni di guerra, è cominciato davvero. Anche per scuole e ospedali: «Ormai si lavora in reparti senza riscaldamento, in terapie intensive alimentate da vecchi e scassati generatori – descrive Enrico Vallaperta, responsabile locale di Medici Senza Frontiere -. I chirurghi sono costretti a operare con le lampade frontali. Gli anziani che sono malati e vivono in villaggi di campagna sperduti, non possiamo curarli: per sopravvivere, ci s’affida alle teleconsultazioni mediche».

L’emergenza è totale. È dal febbraio 2022 che i russi colpiscono senza pietà la rete elettrica ed è più o meno dallo stesso periodo, ha scoperto la Procura speciale ucraina, che qualche politico di Kiev s’arricchiva senza pudore sulle forniture, non si sa se più per indifferenza o per indecenza. Il peggioramento della situazione è nelle parole di Vallaperta, un infermiere veronese che ha visto le emergenze in Siria e a Gaza e nel ’22, all’inizio dell’invasione, organizzò per Msf l’evacuazione dei feriti e dei malati più gravi: «Tra Dnipro e Donetsk – spiega -, ora la gente combatte soprattutto i blackout provocati dai bombardamenti russi. Le case private e le strutture pubbliche dipendono dai generatori di corrente. Ma il numero di questi apparecchi è nettamente inferiore alla necessità. E nonostante gli invii, anche dall’estero, trovarli è sempre difficilissimo».



















































Da un sondaggio fra i bambini ucraini che vivono in grandi città come Dnipro, giunge una risposta che dice qualcosa: più che le sirene antiaeree, fonte di stress per meno d’un ragazzino su tre, ad agitare i sonni è la paura di non andare avanti con la scuola (34%) e di restare al buio e al gelo totale (49%). In quest’ultima percentuale, va inserita la conseguente ansia di finire in ospedale e non trovare l’energia elettrica: «In effetti – dice l’infermiere italiano -, anche per noi la disponibilità è limitata e la priorità d’utilizzo va ai casi più gravi: il funzionamento dei ventilatori polmonari per pazienti in terapia intensiva, il riscaldamento dei pronto soccorso, l’avvio dei macchinari essenziali». E gli altri? «Al resto degli ospedali, non restano che il buio e il freddo. Sempre più penetranti, con l’avvicinarsi dell’inverno. Le temperature vanno ormai sotto lo zero, si prova a resistere». Putin sa dove colpire, «i blackout deliberati sono più frequenti», e dopo quattro anni senza manutenzione tecnica, lo stop and go della corrente sta creando problemi inediti: «La corrente se ne va più di quanto venga. E ogni volta danneggia un po’ di più macchinari ospedalieri che sono già vecchi e finiscono per rompersi, senza possibilità di sostituzione. A pagarne il prezzo maggiore, ovvio, sono i pazienti. Per loro, le cure sono sempre più limitate. E parlo perlopiù d’anziani, di donne e di bambini».

C’è una linea di fuoco in continuo movimento, i russi che avanzano, e spesso alcuni piccoli ospedali ancora funzionanti finiscono sotto i colpi dei droni e del fronte di guerra. «E’ successo a Prokrovsk, che è stato evacuato e ormai è inagibile. Un grave danno: gli ospedali locali sarebbero fondamentali per assistere la popolazione rimasta nei villaggi in prima linea, ma spesso accade che la maggior parte dei medici e degl’infermieri locali siano fuggiti”. Non sono molte le organizzazioni internazionali rimaste sul campo: a Dnipro, Msf ha 12 ambulanze e riesce a trasportare una ventina di feriti al giorno, ma è con le cliniche mobili che «riusciamo a raggiungere circa cento persone al giorno – racconta Vallaperta -, coprendo un’area molto più vasta, circa ottocento km dal nord al sud del Paese, lungo la linea del fronte orientale: da Dnipro a Donetsk, passando per Pavlohrad e Pokrovsk, fino ad arrivare a Zaporizhzhia». Trasferimenti preziosissimi: «Portando via i ricoverati della frontline, liberiamo i posti letto che possono servire a feriti più urgenti». Trasporti inevitabili: ci sono anche cinquecento ucraini che ogni giorno chiamano l’Onu, nei cosiddetti «transit center», perché non ce la fanno più e vogliono andarsene in zone meno pericolose. Nessuno è mai al sicuro, «nemmeno noi: durante gli spostamenti, i colleghi della sicurezza ci segnalano d’ora in ora i tratti meno rischiosi, per arrivare nelle zone più remote. La precisione dei droni non fa che aumentare. L’area colpita da un’esplosione è triplicata, dai cinque ai quindici km. E i bombardamenti mirano sempre più agli edifici residenziali»..

È questa, la strage dei civili, la lama che più ferisce la pellaccia esperta d’uno come Vallaperta. Molte volte le ferite si ricuciono in poche ore, ma per il resto non basta una vita: «Questa gente ha bisogno di riappropriarsi della quotidianità, d’abitare liberamente la propria casa e di considerarla ancora sicura». Qualche settimana fa, a Dnipro, han portato d’urgenza una famiglia con due bambini: un’esplosione aveva devastato il loro condominio. «Il figlio più piccolo aveva perso tutt’e due le gambe e la disperazione dei genitori era enorme. Li ascoltavo, mi sentivo male. Ma ancora più grande, forse, era lo choc di quella famigliola. Non si capacitavano d’essere stati un bersaglio. Persone normali, eppure da distruggere. E ancora nel mirino, dopo quattro anni di guerra».

23 dicembre 2025 ( modifica il 23 dicembre 2025 | 10:28)