Il 2025 si chiude con i fuochi d’artificio per l’economia americana. Il Pil Usa è aumentato del 4,3% nell’ultimo trimestre per il quale ci sono dati disponibili, quello che va da luglio a fine settembre. È un dato eccellente, e spiazza gli esperti che avevano previsto una crescita molto inferiore. È positivo anche il fatto che questa crescita sia stata trainata in modo prevalente dalla spesa delle famiglie per consumi: un indicatore che i redditi, il potere d’acquisto, la fiducia dei consumatori godono di buona salute.
Ancora una volta l’economia americana si distingue per la sua forza e vitalità. Ma non bisogna trarne conclusioni «politiche» affrettate, né in un senso né nell’altro. In un’ottica di lungo periodo, infatti, questo vigore dell’America non è legato in modo specifico al ciclo politico: la velocità di crociera dell’economia Usa è più o meno rimasta quella che aveva durante l’Amministrazione Biden, a riprova che i cosiddetti «fattori fondamentali» sono buoni a prescindere da chi governi. E questo dato economico eccellente non esclude che vi siano motivi di insoddisfazione nell’elettorato.
Quel +4,3% segna comunque la crescita più forte degli ultimi due anni. La traiettoria dell’economia americana è in accelerazione da un trimestre all’altro: fece +3,8% nel trimestre precedente. Su questa base, quando conosceremo il Pil al 31 dicembre la crescita potrebbe attestarsi sul +2,5% annuo, un dato molto positivo (soprattutto in confronto al resto del mondo) ma non sostanzialmente superiore alla media del 2024 (+2,4%) che fu l’ultimo anno della presidenza Biden. Quest’America non è entrata in un’Età dell’Oro, così come non era stata un inferno durante l’Amministrazione precedente, per rievocare delle immagini usate da Trump. Però scoppia di salute, e questo smentisce in primo luogo la categoria degli economisti: una maggioranza degli esperti aveva previsto effetti catastrofici dalle scelte economiche dell’attuale presidente, nulla di tutto ciò si è avverato.
Né vale l’obiezione per cui sarebbe una crescita «drogata dal boom dell’intelligenza artificiale», argomento di moda di questi tempi. In realtà il dato del penultimo trimestre 2025 contiene una buona dinamica degli investimenti delle aziende (+2,8%) ma non più il «surriscaldamento» del trimestre precedente (+7,3%). Gli investimenti in macchinari e proprietà intellettuale, che includono le spese per l’intelligenza artificiale, sono cresciuti del 5,3%: un dato buono ma non così forte come nel trimestre precedente.
Ciò che è veramente decisivo è il comportamento dei consumatori che hanno largheggiato nelle loro spese (+3,5%, un intero punto percentuale in più rispetto al trimestre precedente). Questo contraddice la narrazione prevalente, secondo la quale i consumatori sarebbero stati danneggiati e impoveriti dai dazi di Trump. Di quei presunti danni non v’è traccia. D’altronde chi ha demonizzato gli effetti dei dazi sembra ignorare che essi si applicano su una parte molto piccola dell’attività economica Usa: le importazioni sono appena un decimo del Pil, l’America è una nazione poco dipendente dal commercio estero; inoltre la massima parte della spesa di consumo si rivolge ai servizi che sono domestici e non subiscono alcun impatto dalle politiche doganali.
Il +4,3% del Pil sarà una delle ultime statistiche sfornate dagli uffici federali prima di Capodanno. Quindi su questo numero si eserciteranno tutte le strumentalizzazioni politiche immaginabili. È probabile che Trump se ne prenda un merito, seguendo la consolidata tradizione per cui i presidenti si attribuiscono le buone notizie ed esorcizzano quelle cattive. Dalla comunità degli economisti ortodossi non sentiremo mai un’autocritica per aver clamorosamente sbagliato le previsioni: non si usa, le comunità scientifiche sono autoreferenziali e hanno sempre un alibi pronto. D’altronde il dato attuale non va sovrastimato nel suo impatto, per tante ragioni. Il clima dell’opinione pubblica è influenzato da altri fattori più che dal Pil: soprattutto il carovita e l’occupazione, due temi sui quali è difficile pronunciare verdetti molto precisi.
L’inflazione non è particolarmente elevata, attorno al 2,9%, ma il carovita è un’altra cosa, si misura sul livello dei prezzi, non sulla velocità del loro aumento. Il livello dei prezzi ebbe una botta al rialzo poderosa durante e subito dopo la pandemia, da allora non è mai sceso (con alcune eccezioni come la benzina). Su di esso pesano fattori strutturali come i vincoli normativi che limitano la costruzione di nuove abitazioni (l’accesso agli alloggi è stato uno dei temi delle ultime elezioni locali in molte parti degli Stati Uniti). Però sarebbe esagerato descrivere un’America stremata dal costo della vita, visto l’andamento brillante dei consumi. Sull’occupazione pesano altre considerazioni, come il calo dell’immigrazione o lo sfoltimento dei ranghi della burocrazia.
In generale, per chi osserva l’economia Usa da altre parti del mondo, resta valido il consiglio che bisogna concentrarsi su «the big picture», il quadro generale, la visione di lungo periodo. Il distacco storico e geografico del Rapporto Draghi, per esempio, insegna che l’America ha dei fattori strutturali di superiorità che le hanno consentito di infliggere distacchi crescenti ad altre parti del mondo (l’Europa, ora anche la Cina), e questo è vero almeno dall’inizio del millennio, un periodo nel quale alla Casa Bianca si sono alternati cinque presidenti dei due partiti e ricette economiche assai diverse.
23 dicembre 2025
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