di
Massimo Gaggi
Il presidente degli Stati Uniti usa la sicurezza nazionale per imporre il suo ego
L’atmosfera natalizia non lo distrae né lo ammorbidisce. La perdita di consensi nel Paese non lo induce a maggiore cautela: Donald Trump va avanti a tutta forza anche in questi giorni festivi con la sua agenda «America First» che ha sempre più un sapore di «Trump First»: dalla rimozione di decine di ambasciatori di carriera in giro per il mondo, da sostituire con suoi fedelissimi come da piano di occupazione capillare del potere del «Project 2025», all’invocazione di più o meno fantasiose emergenze di sicurezza nazionale per imporre azioni assai controverse.
Le ultime: il blocco di cinque grandi impianti eolici in costruzione in mare, lungo le coste dell’Atlantico, ma anche l’opposizione alla richiesta di bloccare la costruzione della gigantesca sala da ballo della Casa Bianca voluta da Trump in attesa di verificare compatibilità architettoniche e rispetto del patrimonio storico della capitale. Ma anche per la ballroom gli avvocati del presidente chiedono mani libere: motivi di sicurezza nazionale. Invocati anche per negare il diritto alla contrattazione sindacale del pubblico impiego in aree che hanno qualche legame con tematiche di sicurezza.
E poi, dopo un lungo silenzio che sembrava un implicito riconoscimento di aver esagerato pretendendo di annettersi territori di un altro Paese, per di più alleato degli Usa nella Nato, ritornano le pretese di Trump sulla Groenlandia: ha nominato il governatore della Louisiana, Jeff Landry, inviato speciale degli Stati Uniti nella grande isola danese. Un gesto giudicato inammissibile dal governo di Copenaghen che ha convocato l’ambasciatore Usa per una protesta ufficiale, richiamando tutte le leggi internazionali che Washington rischia di violare.
Artico e flotte dorate
Argomenti ignorati da Trump, che tira dritto: «Dobbiamo avere la Groenlandia: ci serve per proteggere la nostra nazione». Di nuovo sicurezza nazionale. Il presidente ne ha parlato in un discorso sulla flotta militare che può essere considerato la quintessenza del suo pensiero «Trump First». La flotta della US Navy sta invecchiando. Il suo rinnovo va a rilento non tanto per mancanza di fondi quanto per progetti sbagliati, poi ritirati, insufficiente disponibilità di cantieri e mancanza di personale specializzato capace di costruire navi militari. The Donald è piombato su questa complessa situazione annunciando che a fianco del grigio naviglio della US Navy arriverà una golden fleet (solita mania, anche la flotta d’oro) che avrà le corazzate più potenti che abbiano mai solcato i mari, armate anche con ordigni nucleari.
Questa nuova classe di navi gigantesche si chiamerà — indovinato? — classe Trump. Navi ancora da progettare e senza un cantiere in grado di costruirle, ma secondo il presidente la prima entrerà in servizio tra due anni e mezzo. Impensabile: solo la progettazione richiede anni. E poi per i moderni conflitti in mare non servono corazzate ma navi più piccole e agili, mentre le armi nucleari da decenni sono state riservate ai sommergibili per un motivo: il sottomarino è un deterrente credibile con la sua capacità di lanciare missili contro territori del nemico in prossimità delle sue coste, mentre usare l’arma atomica di una corazzata per colpire un’altra nave non ha senso in termini di dottrina strategica. «La golden fleet non serve all’America ma solo a soddisfare l’ego e il gusto estetico di Trump, che vuole solo navi con un aspetto cool», taglia corto, sul Wall Street Journal, l’ammiraglio in pensione Mark Montgomery. In effetti Trump ha addirittura detto che parteciperà personalmente al disegno delle navi della nuova classe «perché sono una persona con un grande senso estetico».
Secondo gli esperti, il massimo che la Navy potrà fare in meno di tre anni è prendere due delle unità più grandi oggi in servizio, quelle della classe Burke, montarci sopra qualche missile in più, mettere il nome di Trump sulla chiglia e ridipingerle, magari d’oro.
Purga diplomatica
Meno folkloristica ma più grave per le possibili conseguenze geopolitiche, la «purga» degli ambasciatori. I presidenti cambiano quelli non di carriera diplomatica che erano stati nominati dai predecessori per premiare un alleato politico o un finanziatore della loro campagna elettorale. Trump lo ha già fatto, ma ora va oltre: trenta ambasciatori in Paesi come Nigeria, Egitto, Algeria, Slovacchia, Montenegro, Congo, Senegal dovranno lasciare l’incarico entro metà gennaio.
Un presidente che ama vantarsi delle sue azioni, anche le più spericolate, stavolta ha fatto tutto in silenzio. È stata l’associazione dei diplomatici a dare l’allarme. Mentre Cina e Russia sono all’offensiva, anche diplomatica, in tutto il Sud del mondo, l’America, che già ha decine di ambasciate senza ambasciatore, sta creando vuoti politici ancora più vasti. Li colmerà con giovani funzionari trumpiani, privi della lunga esperienza maturata dagli ambasciatori di carriera.
23 dicembre 2025 ( modifica il 23 dicembre 2025 | 23:08)
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