C’è qualcosa di profondamente ambiguo quando si prova a immaginare il futuro del videogioco guardando a un elenco di uscite “big”. Da un lato, l’entusiasmo primordiale, quasi adolescenziale, che scatta appena leggiamo nomi come Grand Theft Auto, Resident Evil, Halo, Tomb Raider.
Dall’altro, una sensazione più sorda, meno confessabile, che assomiglia a una stanchezza preventiva. Come se, ancora prima di mettere mano al pad, sapessimo già cosa aspettarci.
E il 2026, per come si sta delineando, sembra esattamente questo: un anno mastodontico, affollato di colossi, ma anche pericolosamente carico di significati che vanno oltre i singoli giochi, come ci ha raccontato la nostra Giulia Serena in uno speciale dedicato.
Perché il punto non è stabilire se il 2026 sarà un grande anno per i videogiochi. Lo sarà, quasi certamente. Il punto è capire che tipo di grande anno sarà. Se rappresenterà un nuovo slancio creativo, o piuttosto l’ennesima conferma di un’industria che ha deciso di giocare sul sicuro, trasformando il concetto stesso di “blockbuster” in una comfort zone permanente. Ve lo cerco di spiegare, elencandovi i giochi.
L’anno che verrà
Basta infatti scorrere i titoli attesi per rendersene conto. Resident Evil Requiem, Onimusha: Way of the Sword, Wolverine, un nuovo Tomb Raider, un “nuovo” Halo, un nuovo Forza Horizon, un nuovo Control, Fatal Frame che torna con un remake, Nioh 3, Phantom Blade Zero, Pragmata che riemerge dal limbo.
E poi lui, l’elefante nella stanza, Grand Theft Auto VI, che da solo basterebbe a riscrivere il peso specifico di un’intera generazione. È una line-up che urla potenza, investimenti, valori produttivi altissimi. Ma urla anche un’altra cosa, più sottile: continuità. Per alcuni sarà un pregio. Per altri, un campanello d’allarme.
Prendiamo Resident Evil, tanto per cominciare. Capcom è probabilmente l’editore che meglio ha incarnato la parola “rinascita” negli ultimi anni. Ha saputo reinventare la saga senza rinnegarla, alternando remake chirurgici a capitoli nuovi capaci di dialogare con il passato. Requiem, qualunque cosa sarà davvero, non porta sulle spalle il peso del fallimento, ma quello delle aspettative.
Ed è una differenza enorme. Il problema è che a forza di azzeccare colpi, anche l’eccellenza rischia di diventare routine. Il survival horror, oggi, è di nuovo una comfort zone, non più una scommessa. Lo stesso discorso vale per Onimusha, che torna dopo anni di silenzio.
Un ritorno che profuma di operazione nostalgia, certo, ma anche di tentativo di riempire un vuoto preciso: quello lasciato da un certo tipo di action giapponese, elegante, stilizzato, feroce ma misurato. Il rischio, però, è che il passato venga trattato come una reliquia da restaurare, non come un’idea da far evolvere davvero. E il confine tra omaggio e imbalsamazione è sempre più sottile.
Poi c’è Wolverine. Il gioco che, forse più di altri, rappresenta l’ossessione contemporanea per i “personaggi forti”. Non nel senso narrativo, ma in quello di brand. Insomniac è una garanzia, su questo non ci piove. Ma Wolverine non è Spider-Man.
Non è un personaggio che vive di acrobazie, leggerezza, verticalità. È rabbia, violenza, introspezione, dolore. Se il 2026 ci consegnerà l’ennesimo action open map iper-lisciato, con combattimenti spettacolari ma emotivamente vuoti, allora sarà una sconfitta mascherata da successo.
Tomb Raider: Legacy of Atlantis è un titolo che già dal nome sembra voler dire tutto e niente. “Legacy” è una parola che, nel marketing moderno, ha assunto un significato inquietante: non indica più un’eredità da raccogliere, ma un passato da monetizzare. Lara Croft è uno dei personaggi più importanti della storia del medium, ma è anche una figura che da anni fatica a trovare una nuova identità. Il reboot narrativo l’ha umanizzata, quello ludico l’ha standardizzata.
Il 2026 sarà l’anno in cui Tomb Raider proverà davvero a dire qualcosa di nuovo, o l’ennesimo capitolo di una saga che vive di memoria?
Halo: Campaign Evolved è forse il titolo più simbolico di tutti. Non tanto per quello che promette, quanto per quello che suggerisce. La parola “Campaign”, messa lì con tanta enfasi, sembra quasi una richiesta di perdono. Come a dire: sappiamo di avervi deluso, sappiamo di aver inseguito modelli sbagliati, ora torniamo alle basi.
Ma il problema di Halo non è mai stato solo il contenuto. È stata la direzione. E senza una visione forte, nemmeno la miglior campagna del mondo può salvare un’icona in crisi d’identità.
E poi c’è Control Resonant, che rappresenta l’altra faccia della medaglia: quella delle IP nuove che diventano rapidamente “nuove certezze”. Control è stato un gioco coraggioso, strano, imperfetto. Ma proprio per questo memorabile.
Trasformarlo in un franchise strutturato è comprensibile, quasi inevitabile. Ma ogni seguito porta con sé una domanda scomoda: quanto spazio resta per l’imprevisto, quando il pubblico si aspetta già una formula?
Il discorso potrebbe continuare con Forza Horizon 6, simbolo di una perfezione tecnica che ormai diamo per scontata; con Nioh 3, che dovrà dimostrare di non essere prigioniero della propria stessa eccellenza; con Phantom Blade Zero e Pragmata, che incarnano la speranza che il 2026 non sia solo l’anno delle certezze, ma anche quello delle sorprese.
Il colosso più grande
E infine, inevitabilmente, Grand Theft Auto VI. Il gioco che non ha bisogno di presentazioni, perché è già un evento culturale prima ancora di esistere davvero. GTA VI non sarà solo un videogioco. Sarà un termometro. Dirà molto su cosa il pubblico è disposto ad accettare, su quanto l’industria può spingersi oltre, su come Rockstar intende leggere il mondo contemporaneo.
Perché se GTA ha sempre funzionato come una satira del presente, oggi quel presente è più complesso, più fragile, più polarizzato che mai. E fare satira, oggi, è un atto rischioso. Il 2026, quindi, non è solo un anno pieno di giochi grossi. È un crocevia.
È l’anno in cui l’industria dovrà dimostrare se la parola “blockbuster” è ancora sinonimo di ambizione, o se è diventata semplicemente una gabbia dorata. È l’anno in cui capiremo se la nostalgia è uno strumento creativo o una stampella. Se il futuro passa ancora dalle grandi IP, o se queste stanno lentamente soffocando tutto il resto.
Da giocatori, è facile lasciarsi travolgere dall’hype. È umano. Ma da osservatori, da appassionati che amano davvero questo medium, forse il compito è un altro: guardare il 2026 non solo come una promessa di divertimento, ma come una domanda aperta. Una domanda scomoda, che suona più o meno così: stiamo andando avanti, o stiamo solo diventando sempre più bravi a girare in tondo?
E la risposta, per quanto possa sembrare paradossale, non arriverà dai numeri di vendita. Arriverà da quanto, controller alla mano, saremo ancora capaci di sorprenderci davvero.