Tutto quel che vi serve per sopravvivere al Natale sta tra la prima e la seconda pagina di “Vita tra i selvaggi”, libro di Shirley Jackson che Adelphi ha appena pubblicato in coincidenza con quell’appuntamento annuale che è la lamentazione natalizia della donna oppressa.
Non sono in pari con l’opera di Daria Bignardi, quindi non so se questo Natale abbia già pubblicato il più popolare dei suoi format. Quello in cui Daria Bignardi, che ha una carriera e figli grandi e immagino personale di servizio, si poggia il dorso della mano sulla fronte e invita le donne a ribellarsi alla schiavitù domestica.
Cito a memoria dalle repliche degli anni precedenti: non fate niente. Non raccogliete calzini, non lavate piatti, non correte dietro a mariti e figli che seminano disordine. E tutto il cucuzzaro: vogliatevi bene, voi contate, le vacanze sono vacanze anche per voi. Nulla piace di più, al femminismo compiaciuto di chi si è trovata i diritti fatti, che atteggiarsi a vittima di vessazioni patriarcali.
La Bignardi fa benissimo, sia chiaro: ha la mia approvazione e persino la mia invidia. Il pubblico femminile vuol sentirsi dire «poverina, se non fosse per la lavastoviglie da disfare avresti vinto il Nobel», e lei scrive: poverina, se non fosse per la lavastoviglie – eccetera.
Quest’anno la copia persino il New York Times, che avendo un po’ di senso del ridicolo mette come biografia all’autrice bignardiana il suo più importante traguardo: «La signora Austin ha invitato la famiglia a casa sua per la cena di Natale dal 2003 al 2023». All’inizio le piaceva, dice Elizabeth Austin. Ma poi si è allargato il divario tra le sue capacità e le aspettative altrui.
Ma non poteva dire che la cena non si faceva più a casa sua perché, illustra con bignardica immagine, il ruolo di colei che t’invita per le feste si era calcificato attorno a lei come il gesso attorno a una frattura. E naturalmente i maschi di famiglia non se ne accorgono, quei bruti.
Elizabeth Austin non dice, come farebbe una trentenne su Instagram, «carico del lavoro di cura», ma è chiaramente quel che intende quando lamenta che sì, il fratello voleva rendersi utile, ma non si rendeva conto che era peggio se riversava su di lei la responsabilità di rispondere alla domanda «apro il bianco o il rosso?».
Abbiamo anche la maledizione della primogenita, che ultimamente va di gran moda tra i concetti vittimisti, quasi quanto il carico del lavoro di cura e le vessazioni del patriarcato. Le primogenite, queste custodi della tradizione su cui ricade la responsabilità di tenere vive le tradizioni famigliari, il lavoro emotivo, la paura che il costrutto sociale crolli se loro smettono di far tutto. Si vede che non sono primogenita, si vede che mi hanno sempre mentito.
Come finisce, il dramma di Elizabeth Austin? Che il fratello e la cognata comprano una casa con una sala da pranzo più grande della sua, e le cene natalizie si trasferiscono da loro. L’articolo finisce col sollievo di lei che si fa viva solo alle quattro di pomeriggio con una torta fatta con la sfoglia surgelata (un’opzione che evidentemente non le veniva in mente quando doveva far tutto: se devi far tutto, ti rendi la vita ancora più complicata, secondo la logica illogica del vittimismo natalizio), e la gioia di rientrare a fine cenone in una casa senza cucine da pulire. Nessun rimpianto. Quindi, l’articolo mente.
Quel che Austin non dice è che sentirsi indispensabili è un dosaggio di autostima che molte considerano irrinunciabile; anche perché, no, non possono sostituirlo vincendo il Nobel: la società non è fatta perlopiù di geni che hanno rinunciato alla loro vocazione perché ostracizzati dal dover portare giù l’umido, ma altrimenti loro sì ce l’avrebbero fatta vedere. Provate a dire a una di queste in posa da vittime delle pretese della società e della famiglia che non c’è problema, quest’anno Natale si fa al ristorante: in confronto la ragazzina dell’“Esorcista” sarà serena.
Volete non solo privarla del diritto a lagnarsi, ma anche dell’unica competitività riservata a chi un Nobel non potrebbe vincerlo: quella a chi è la più perfetta padrona di casa. Lo faccio dire a Shirley Jackson, che rende il sentimento vivo come io non saprei fare: «Se mi sono messa a pensare alle tazzine è stato perché una delle mie migliori amiche ha dichiarato che a lei le nostre tazzone per il caffè dopo cena in realtà non piacevano affatto: siccome ama il caffè bollente, preferisce le tazzine. Questo naturalmente mi ha fatta partire per diverse tangenti che riguardano la sua competenza come padrona di casa; è davvero una mia carissima amica, e per niente al mondo le direi che l’ultima volta che siamo stati a casa loro in bagno mancava la saponetta. Le sono molto affezionata, ma è un dato oggettivo che le finestre della sua camera degli ospiti non si aprono. Insomma, è una donna fantastica, e se il caffè a casa mia le piace nelle tazzine, lo avrà nelle tazzine, e pazienza se l’ultima volta che abbiamo cenato a casa sua ho trovato un ragno nell’insalata».
È impossibile non pensare a Shirley Jackson mentre Elizabeth Austin si lamenta che in lavastoviglie non ci stia tutto. In America “Vita tra i selvaggi” esce nel 1953, a un certo punto l’io narrante lamenta che ci voglia una mattina intera per lavare la biancheria e i pannolini e stendere tutto, e io penso alle nostre vite del 2025, coi pannolini usa e getta e la lavasciuga riempita prima di andare a dormire e tutto già pronto al risveglio, e penso che osiamo lamentarci e chiedere retribuzioni per un lavoro domestico che fanno attrezzi elettrici al nostro posto. Neanche i denti facciamo più la fatica di spazzolarci senza che lo faccia un attrezzo al posto nostro, eppure ci lamentiamo come fossimo gli abitanti dell’epoca più faticosa di tutti i tempi.
In “Vita tra i selvaggi” i coniugi vanno a vedere delle case perché li hanno sfrattati dal loro appartamento, e gliene propongono una che «sarebbe stata perfetta per noi, i nostri libri e i nostri figli, se solo avesse avuto l’impianto idraulico». Leggo e penso che gli ultimi settant’anni, in quanto ad aumento del benessere diffuso ed emancipazione e comodità, non sembrano neanche settecento: più settemila.
Settant’anni fa in Vermont sbuffano per le fisime della famiglia che si vuole trasferire: «Avevamo l’assurda pretesa di avere il riscaldamento». Mi viene in mente casa di mia nonna, e la frase, mai più sentita altrove, «oggi arriva la bombola». Era quarant’anni fa ma sembrano quattromila, quando persino avere il gas non era un’ovvietà cui non pensare: era una cosa che andava organizzata, una rottura di coglioni, un impegno. Oggi direbbero: era carico del lavoro di cura.
Stasera, mentre osservate di sbieco lo sformato preparato da vostra cognata beandovi del vostro essere migliori cuoche, pensate ai banchetti natalizi come al matrimonio o in generale come alla vita adulta, quella di cui Shirley Jackson fornisce già alla prima pagina la sintesi perfettissima: «Insomma, non riesco a immaginare una vita migliore, ma se devo essere sincera ho dovuto accettare un bel po’ di compromessi».