di
Gaia Piccardi
L’insider Di Palermo: «Jannik e Carlos, una sfida per l’immortalità tra due predestinati. Federer è un giocherellone, nascondeva le racchette ai colleghi: Wawrinka diventava pazzo»
Giocano troppo, però alle esibizioni non dicono mai di no. I campi sono troppo lenti, anzi velocissimi. E le palle? Un giorno volano, il giorno dopo sono sassi, poi gatti pelosi ingiocabili. Fa caldo, no freddo. Non sono mai contenti, i tennisti del circuito Atp. Però nulla succede senza la loro approvazione: si mettano d’accordo con se stessi. Il dietro le quinte, rivela un retroscena: «Il board dell’Atp è formato da otto persone, 4 rappresentanti dei tornei e 4 dei giocatori. Sotto il board c’è un players council, con dieci membri eletti. Ogni decisione è condivisa. L’Atp, insomma, sono i giocatori stessi».
Giorgio Di Palermo, 61 anni, romano, scorpione, oggi prezioso dirigente della Federazione italiana tennis e padel, è uno di quei volti che ai tornei vedi sempre, senza che appaia mai. Con una laurea in legge alla Sapienza e il tennis come vocazione di vita, Di Palermo ha imparato il mestiere con Franco Bartoni agli Internazionali del Foro Italico, per poi diventare tour manager dell’Atp e infine entrare nel board: 22 anni al servizio dei giocatori, top e non, prima di essere chiamato da Angelo Binaghi alla Fitp. Pochi, nel circuito, conoscono questo sport e i suoi protagonisti come Giorgio Di Palermo.
Come fu l’inizio, nel ’96, all’alba dell’epopea dei Big Three?
«Federer e Nadal erano ragazzini, Djokovic sarebbe arrivato poco dopo. Andava fatto loro capire cos’è l’Atp e cosa significava appartenervi. Roger è stato per molti anni presidente del players council: un leader straordinariamente normale. Quando a Tolosa, nel ’98, ottenne la prima vittoria in carriera a livello Atp, battendo Raoux 6-2, 6-2, io c’ero. Chiamai gli amici a casa: ragazzi, ho visto Sampras con un rovescio migliore. Federer ha capito subito che era suo dovere rappresentare l’immagine del tennis da numero uno. È diventato un perfetto ambasciatore nel mondo. Nadal e Djokovic hanno seguito il suo esempio. Sinner e Alcaraz stanno percorrendo le orme dei Big Three con fedeltà assoluta ai loro valori di lealtà e rispetto».
Considera Jannik e Carlos degni eredi di quell’irripetibile stagione del tennis?
«Cosa c’è di più bello, per un ragazzo di 22 o 24 anni, del rappresentare un modello da imitare per i bambini? Sinner e Alcaraz lo fanno senza sforzo. Nell’alveo dei grandi che li hanno preceduti».
Cosa significa aver visto crescere Federer sotto i propri occhi?
«L’ho osservato abbracciare il ruolo di leader, vedere le giornate che si accorciavano sotto l’incalzare degli impegni. Fare il numero uno del tennis è un lavoro h24: la giornata d’ufficio inizia a colazione. A quell’epoca l’Atp inventò lo Star Program: la regola per cui, durante un torneo, il giocatore deve dedicare due ore ai media. Oggi è scontato. I Big Three, oltre a elevare il gioco a un altro livello, hanno professionalizzato il tennis».
Ci racconti un aneddoto.
«Federer, che è un giocherellone, faceva scherzi leggendari nello spogliatoio. Tipicamente nascondeva le racchette ai colleghi con cui aveva confidenza, ad esempio Wawrinka. Stan arrivava e diventava pazzo a cercarle. Ma nello spogliatoio, dove non li vede nessuno, molti tornano bambini».
Il carisma di Federer, di persona, era palpabile?
«Condivido un ricordo che vale più di mille spiegazioni. Melbourne 2005, area giocatori mentre in campo, negli ottavi, Federer affronta il greco Baghdatis. Si immagini una distesa di lettini dei fisioterapisti, pieni di tennisti che vengono trattati. La tv è accesa sul match del favorito. Federer fa un rovescio in back sul quale Baghdatis si avventa, tirando fuori di metri. Risate sgangherate dei presenti, che cominciano a spernacchiare il greco. Da dietro, si sente una voce: cosa cazzo ridete? È Andre Agassi, che ha assistito alla scena. Il clima si fa spesso, lo stanzone ammutolisce. Agassi prosegue: voi non avete capito che quello, il rovescio in back di Roger, sarà il colpo più letale del tennis dei prossimi dieci anni. Agassi diceva il vero: aveva visto nel futuro».
E Nadal nella vita è così serio come lo era in campo?
«La latinità ha sempre reso Rafa quasi italiano: parlare di calcio con lui, non solo del Real Madrid, è come farlo con un connazionale. Quando la sua squadra perde, è un rosicone. Ma quando Nadal parla di tennis, è una sentenza. Sa tutto. Una sera eravamo sul divano, a un dopocena a casa di amici a Montecarlo. Alla tv trasmettevano il suo match del pomeriggio con Murray, al Master 1000 del Principato. Beh, Rafa si ricordava ogni colpo di ogni scambio di ogni quindici di ogni game di ogni set. Una cosa impressionante. Intanto, commentava: eh, qui sono stato proprio di coccio… Non puoi avere quella memoria, se non ami profondamente quello che fai».
La presenza sulle cose dei grandi, insomma.
«All’Australian Open 2011, dopo aver superato le qualificazioni, Marco Crugnola, miglior ranking n. 165, esce al primo turno. Resta a Melbourne, Federer cerca uno sparring e gli organizzo un allenamento con Roger. Su un campo secondario, assisto a questa scena. Marco arriva e si presenta: ciao Roger, sono Crugnola. E Federer: ma che sei matto, ti presenti? Io so tutto di te. E comincia a snocciolare risultati di Marco ai Challenger di Bergamo, Sanremo, Cremona. Forse pure Manerbio… Significa una sola cosa: amore infinito per il proprio sport».
Quindi con Sinner e Alcaraz il tennis è in buone mani?
«Ottime. Jannik e Carlos sono esattamente come Federer, Nadal e Djokovic. Ci aspetta un viaggio lungo (almeno) dieci anni. La sfida per l’immortalità tra i due predestinati è lanciata».
Chi è Giorgio Di Palermo
- Giorgio Di Palermo, 61 anni, laureato in legge alla Sapienza, è incaricato alle relazioni internazionali per la Federazione italiana tennis e padel. Lavora su tutti i grandi eventi: dagli Internazionali alle Finals
- Prima di essere chiamato da Angelo Binaghi è stato tour manager dell’Atp, poi è entrato nel board: in totale 22 anni al servizio dei giocatori
24 dicembre 2025
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