Il presidente dell’Uci è preoccupato per i corridori. Vanno troppo forte, troppo veloci. Le biciclette sono sempre più scorrevoli, le bilance troppo frequentate, le applicazioni pronte all’uso a dire quanto hai consumato e quanto hai diritto di integrare. È preoccupato per una vita troppo scadenzata, a intervalli fissi e prestabiliti. Tutti con il bilancino, pochi con il braccino, visto che ormai sono tutti ormai con il gambone pronti a dare battaglia dall’inizio alla fine.
Via a tutta, sempre e comunque, come se non ci fosse un domani. La vita è adesso canta da quarant’anni Claudio Baglioni e i corridori la vivono intensamente, tra ritiri e test in galleria per compiacere la platea sempre più esigente, anche perché ci ha fatto la bocca buona. Pensate quado Pogacar la smetterà di scappare via a cento chilometri dal traguardo. Pensate quando Evenepoel la smetterà di rincorrerlo. Pensate quando Van der Poel se ne farà una ragione, così come Vingegaard e Del Toro, Pidcock e Van Aert e tutto tornerà nel solco di una “normalizzazione” che sa tanto di mediocrità. Teniamoci stretti questo ciclismo dal profilo alto che fa sorridere poco i corridori – gli altri, quelli che non riescono a tenere il passo di questi qui -, ma di fatto fa godere noi appassionati, anche quelli che di ciclismo sanno poco, ma si sono riavvicinati proprio grazie ad un Pogacar che fa cose talmente eccezionali rendendole fruibili a tutti: questa si chiama promozione.
Tornando però alle preoccupazioni del numero 1 del ciclismo mondiale, il presidente Lappartient è preoccupato per il sorriso perso dai corridori, per il “burnout” o sindrome da esaurimento professionale. Per quello stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale causato da uno stress prolungato che ammorba la mente di tanti atleti di ogni età. Si manifesta con stanchezza ed è riconosciuto dall’OMS come un “fenomeno occupazionale”. Insomma, una malattia professionale bella e buona.
Ma il problema non sono le corse e nemmeno i corridori o le loro squadre, ma proprio di chi si dice preoccupato: l’UCI. I corridori oggi guadagnano tutti molto bene, ma la gran parte ha perso la leggerezza di vivere il lavoro più bello del mondo, quello che sognavano di fare fin da bimbi. Il “capitale umano” è messo a dura prova, perché duri sono i calendari, dura è la competizione, durissima è racimolare punti in giro per il mondo, perché il meccanismo è diabolico, esasperante al limite della follia. Le squadre non possono chiamarsi fuori: se vuoi giocare le regole di ingaggio sono queste. E per giocare devi mettere lì suon di milioni di euro per la squadra maschile, per quella femminile, per le “devo” ragazzi e ragazze, fin quando non si inventeranno anche quelle junior. Servono budget “monstre” per allestire squadre di quasi 200 elementi di personale. Non c’è via di scampo. Non c’è altro modo di ripagare chi spende dai trenta ai sessanta milioni di euro all’anno. Sono aziende, che dietro non hanno quasi più aziende, ma Stati sovrani, Fondi, Nazioni e multinazionali bandiera di interi Paesi. C’è meno passione e più pressione: c’è poco da ridere.
IL TOUR DONNE DA RECORD. Quest’anno il Tour de France femminile ha fatto più ascolti del Roland Garros. «Gli ascolti per il ciclismo femminile sono in continuo aumento e questo ci rende felici – ha detto sempre David Lappartient -. In particolare gli ascolti dell’ultima tappa del Tour femminile sono stati più alti di quelli di tutte le tappe di montagna del Tour maschile. Chi l’avrebbe mai pensato cinque anni fa, quando il Tour femminile non esisteva nemmeno?». Su queste parole e a questo interrogativo dovremmo forse riflettere un po’ tutti, non solo Rcs Sport & Events, ma noi appassionati, che fatichiamo a considerare lo sport femminile al pari di quello maschile. Chiaro che non ce lo ordina il medico di guardare il Giro donne, anche se a me piace un sacco. Forse però è il caso di domandarci perché solo da noi le donne in bicicletta non piacciono così tanto.
OTTIMISMO DEL CUORE. Tadej ha perso il torneo di padel organizzato a Rovato dai suoi manager Johnny e Alex Carera, così come la sfida con il simulatore. Ha perso e, in un certo senso, questa è già di per sé una notizia di fine anno. Per il prossimo ci accontenteremmo di rivedere quelli là fare gli stessi numeri fatti quest’anno con la leggerezza di chi non è consapevole di farli e noi, italiani, di inserirci sempre di più in quel ristretto consesso di fenomeni nel quale potremmo anche rientrare con qualche nostro nuovo elemento per sentirci un po’ anche noi fenomenali. È un piccolo sogno, un desiderio suffragato da diversi elementi inconfutabili di ripresa. Il movimento ciclistico italiano c’è e lotta insieme a loro. È speranza e augurio. Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà? Ottimismo del cuore. Buon Natale..
Editoriale da tuttoBICI di dicembre