di
Angela Frenda
La manager, il futuro e il padre: «Gli ultimi giorni mi parlò di una catena di ristoranti. Con i miei fratelli siamo uniti. Stimo Giorgia Meloni»
«Sono cambiate tante cose. È passata molta acqua sotto i ponti. Per questo mi piacerebbe cominciare da chi sono ora». Barbara Berlusconi prova a fare i conti emotivi col passato e a costruire un presente e un futuro. Oggi la prima figlia dell’ex premier e di Veronica Lario ha 41 anni, cinque figli («praticamente una squadra di calcetto») e una vita divisa tra famiglia e impegni istituzionali, tra cui il Cda del Teatro alla Scala e la creazione di una Fondazione che porta il suo nome. «Questo momento arriva dopo un percorso personale, familiare e professionale che mi ha portata a sentire l’esigenza di restituire».
La maternità ha avuto un ruolo chiave?
«Certo: come mamma sono molto presente, anche se ho degli aiuti e so bene quanto io sia una privilegiata. Non volendo rinunciare completamente ai miei interessi e al lavoro ho cercato un equilibrio. La scelta naturale è stata quella di ridurre moltissimo la vita sociale. Non esco quasi mai la sera. Metto io a letto i bambini, li porto a scuola, li seguo nelle loro attività. All’inizio ho provato a fare tutto, ma poi mi sono resa conto che non si può. Per qualche anno ho rinunciato anche al lavoro. Quando sono uscita dal Milan ho avuto due figli uno dopo l’altro, nell’arco di quindici mesi. Per alcuni anni mi sono proprio fermata. Ero abituata ad avere giornate piene, ma ritrovarmi chiusa in casa con quattro figli è stato uno choc. Ho sempre desiderato avere una famiglia, ma non l’avevo immaginata così numerosa… Spesso mi dicono che sono stata coraggiosa. Io rispondo che sono stata incosciente».
Si definisce femminista?
«No, però credo profondamente nelle pari opportunità, sia dal punto di vista culturale che pratico. Questo è il vero tema, più che l’etichetta».
Donne che stima?
«Giorgia Meloni: sotto il profilo storico ha segnato un prima e un dopo. È la prima donna presidente del Consiglio in Italia. A livello personale e professionale la stimo. Poi: la pakistana Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del Nobel per la Pace».
Il suo primo ricordo felice.
«Difficile dare una risposta: nei bambini più che le immagini restano le emozioni. Ho il ricordo di una famiglia serena. Mia madre era tanto presente e ci ha dato sicurezza. Di questo le sono davvero grata». Si ferma un attimo. «E poi c’era mio padre, che era spesso fuori per lavoro. Quando tornava, quei momenti erano di una gioia immensa». Sorride. «Ricordo l’estate, al mare. Lui arrivava di solito il sabato pomeriggio verso le tre. Mia madre ci preparava, ci vestiva eleganti, con i fiocchetti nei capelli, tutti in ordine. Lui ci prendeva così come eravamo e ci buttava in piscina. Ma si buttava anche lui. In giacca e cravatta. Ho delle foto di lui così, completamente vestito in acqua con noi. Mia madre si divertiva moltissimo. Era il modo di papà di rompere gli schemi».

La morte di suo padre è stata un evento molto esposto pubblicamente. Come l’ha vissuta?
«Anche se ci avevano detto tempo prima che la sua salute era compromessa io per mesi emotivamente ho faticato ad accettarlo. Quando poi è successo, è stato un trauma. Nel grande dolore, è stata però anche una riscoperta. Un giorno sono andata a trovarlo e mi ha detto: “Barbara, ho un’idea. Prendi carta e penna”. Voleva che sviluppassi per lui un progetto di ristorazione basato sulla cucina sana. Mi ha fatto scrivere tutto: dove e come dovevano essere i ristoranti, l’organizzazione, gli abiti di camerieri e cameriere. Abbiamo scritto il menù insieme. Più che ricette healthy mi ha elencato i suoi piatti preferiti: la mozzarella di bufala con il pomodoro fresco, la pasta al pomodoro, la mela cotta, il gelato al fior di latte… Non era un menù dietetico, era il suo menù del cuore. Papà non ha mai smesso di progettare il futuro».
Torniamo all’oggi, alla Fondazione che ha creato.
«È nata nella primavera 2025 dal mio desiderio di dare forma ad alcune domande che mi accompagnano da anni e di ragionare su cosa significa oggi educare, trasmettere cultura, costruire pensiero. È da qui che si generano le scelte della Fondazione. Al primo posto c’è l’educazione, con un’attenzione all’infanzia e all’adolescenza. Ci interroghiamo sull’uso degli strumenti digitali, sugli smartphone, sui social media, su come stiano incidendo sullo sviluppo dei ragazzi. E sosteniamo realtà che lavorano sui disturbi dell’apprendimento, come DSA e ADHD, cercando e sviluppando metodi che aiutino i giovani a studiare con maggiore serenità ed efficacia e a superare ostacoli che spesso non hanno nulla a che fare con l’intelligenza o il talento. L’educazione per me è fondamentale: i bambini e i ragazzi di oggi formeranno la società di domani».
Lei è cofondatrice della Cardi Gallery e membro del patto per la Grande Brera.
«L’arte è un pilastro della mia Fondazione. Parla alla parte emotiva dell’essere umano, stimola il pensiero. È un grande strumento di comunicazione. Per questo abbiamo deciso di sostenere progetti come la Grande Brera, una delle realtà artistiche più importanti d’Italia. E partire da Milano è stato naturale».
Come vive la politica?
«Con grande rispetto. Ho le mie idee, ascolto, mi informo e poi tiro le mie conclusioni. Mi sento profondamente liberale e credo in uno Stato al servizio delle persone. Un esempio negativo? Il Covid: una catastrofe gestionale».
Le hanno mai chiesto di candidarsi?
«In alcuni momenti se n’è parlato. Ragionamenti messi in piedi da altri, non da me. Ma non lo farò. È una responsabilità enorme, non è una staffetta. Pensare di entrarci solo per il cognome non ha senso».
Vede eredi di Silvio Berlusconi?
«No, in questo momento no. Almeno, non con quella capacità di visione».
C’è un errore che attribuisce a suo padre?
«Potrei risponderle come faceva lui: ci penso… (ride). A parte gli scherzi, discutevamo tanto io e lui, anche da bambina. Però era impossibile litigare davvero».
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A proposito di litigi, in molti si sono chiesti come abbiate fatto ad affrontare il tema dell’eredità tra voi fratelli senza rompere l’unità familiare.
«Capisco che dall’esterno possa sembrare sorprendente, ma noi siamo una famiglia vera. Quando è mancato nostro padre, è stato naturale supportarci a vicenda, anche nel dolore. Nei giorni successivi alla sua morte siamo stati molto insieme, tutti e cinque, anche con i nostri figli. Ci siamo uniti ancora di più. Mio padre ci ha sempre trasmesso valori molto forti: la famiglia, la fratellanza. I pranzi della domenica erano sacri. Quando perdi un padre e hai fratelli con cui hai condiviso la vita, l’istinto naturale è l’unione, non la divisione».
Cosa è cambiato nel suo modo di percepirsi rispetto a qualche anno fa?
«Da ragazza avevo più insicurezze. Con la maturità ho trovato una forza interiore che si è riflessa anche nel modo in cui mi vedo. Ho attraversato momenti difficili. Dieci anni fa è cominciata una depressione impegnativa, durata a lungo».
E quando ha intuito che doveva farsi aiutare?
«A un certo punto me lo sono imposta. Ho fatto tanta terapia. Per molto tempo non capivo. Poi ho iniziato a osservare le mie abitudini, il mio modo di essere, e ho deciso di approfondire per comprendere da dove venisse questa fatica profonda».
Risposta?
«Ho scoperto di avere l’ADHD, un disturbo del neurosviluppo. Da adulta è stato faticoso accettarlo, ma anche liberatorio. Dare un nome alle cose cambia tutto. Non era dunque una mia colpa, non era mancanza di volontà… Ho solo una struttura mentale diversa dove tempo, organizzazione e concentrazione funzionano in un altro modo. Essere madre poi mi ha aiutato, anche perché uno dei miei figli ha delle difficoltà simili. Per questo mi sono detta che dovevo comprendere prima di tutto me stessa per poter davvero aiutare lui. E ho smesso finalmente di colpevolizzarmi individuando strategie. Per esempio, adesso arrivo in ritardo di dieci minuti, non di un’ora. Non le sembra un piccolo successo?».
24 dicembre 2025 ( modifica il 24 dicembre 2025 | 10:17)
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