Per ragioni del tutto dipendenti dalla mia volontà, questo è l’ultimo numero dell’anno – sono sicuro che mi capite: che senso avrebbe una newsletter quotidiana che uscisse due giorni sì e uno no da qui all’epifania, a parte quello di rovinarmi le vacanze? – dunque proverò anch’io, come si usa in questi casi, a gettare uno sguardo su cosa ci aspetta nel 2026. Ebbene, per dirla in breve, penso che le cose del mondo tenderanno a migliorare (non ci vuole poi molto), ma non sono sicuro che questo miglioramento si rifletterà tanto presto sull’andamento delle cose italiane. Per quanto riguarda il mondo, cioè innanzi tutto gli Stati Uniti, mi pare convincente la tesi di Ezra Klein, secondo cui il 2025 è stato il «picco» di Donald Trump, e nel prossimo anno cominceremo a vederne la discesa. In verità abbiamo già cominciato a vederla, non solo nei sondaggi, ma anche in tutte le elezioni che si sono tenute dopo l’inizio del suo secondo mandato (a onore di Klein, lui l’aveva detto anche prima, sin da gennaio).

Il ritorno di Trump aveva prodotto un impressionante cambiamento di clima, perfettamente rappresentato da Mark Zuckerberg che all’inizio dell’anno partecipava al podcast di Joe Rogan, con tanto di catenina al collo, dicendo che il mondo delle aziende era «troppo ostile all’energia maschile». No, dico, ce l’avete presente Zuckerberg, intendo anche fisicamente, fisiognomicamente, antropologicamente? Come tutti questi nerd della Silicon Valley siano passati in mezzo secondo dal mettersi i pronomi in bio, patrocinare ogni iniziativa benefica immaginabile e parlare per ore dei diritti dei chihuahua al linguaggio, al codice estetico e direi anche al codice morale dei picchiatori della mala meriterebbe uno studio a parte, ma non avendone il tempo ci limiteremo qui a chiamarla «sindrome Capezzone».

Quello che mi interessa, seguendo il ragionamento di Klein, è che questo nuovo clima appare oggi, almeno negli Stati Uniti, già prossimo a scomparire. Gli eccessi, gli abusi e le autentiche crudeltà della politica trumpiana hanno suscitato critiche anche dove meno avremmo potuto aspettarcele, come dal già citato Joe Rogan, indignato dalla brutalità dei raid anti-immigrati. Se le elezioni di Midterm, a novembre, confermeranno le tendenze elettorali di tutte le votazioni precedenti, il progetto neo-imperiale di Trump potrebbe incontrare finalmente qualche serio sbarramento. È vero che gli ultimissimi dati sulla crescita sono più positivi del previsto, e molti s’interrogano sui contrastanti segnali dell’economia, ma ricordo analoghe discussioni pure all’indomani della Brexit. E penso che anche in questo caso il tempo darà inevitabilmente ragione ai profeti di sventura.

Quanto all’Italia, è evidente che il declino del trumpismo, se la notizia non si rivelerà – come quella della morte di Mark Twain – fortemente esagerata, offrirà anche a noi motivi di rassicurazione e persino di diletto. Immagino già la fuga precipitosa verso le scialuppe di salvataggio, precedute in acqua da una pioggia di cappellini rossi e magliette di Charlie Kirk. Tuttavia mentirei se dicessi di essere ottimista. Lo stato attuale dell’opposizione, dei suoi leader e gruppi dirigenti, è tale da rendere una vittoria del centrosinistra, nonostante tutto, ancora difficilmente immaginabile. E a tratti, come quando si parla di politica internazionale e in particolare della minaccia rappresentata dal regime di Putin, forse nemmeno auspicabile. Al laico elettore di sinistra, di una sinistra democratica, europeista e antifascista, dunque anzitutto anti-putiniana, temo non resti oggi altro che sperare in Babbo Natale.

Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.