Capita spesso di leggere dibattiti su come la meme culture sia stata tra i fattori che hanno aiutato la recente ascesa politica della destra in Occidente, un trend accelerato – e speriamo presto esaurito? – dall’attuale secondo termine di Donald Trump negli Stati Uniti. Ma la destra internettiana avrebbe solo da imparare da Demi Lovato, personalità dello spettacolo che per anni ha monopolizzato la Rete ben oltre le proprie doti canore/recitative – da Poot Lovato e Delete it fat al frozen yogurt-gate, GET A JOB STAY AWAY FROM HER!, 1% African e la memorabile illazione (ovviamente falsa) fatty/vagina flick, non sarebbe sbagliato guardare alla popstar americana come una figura di spicco della meme culture, tanto polarizzante quanto innegabile fonte d’ilarità per un’intera generazione di consumatori seriali di contenuti online.
Non è stata solo colpa sua; famiglia disfunzionale alle spalle, cresciuta senza protezione nell’ingranaggio Disney sin dall’età di dieci anni, Demi si trovò protagonista del teen musical “Camp Rock” che era ancora adolescente, presto sviluppando, sotto pubblico scrutinio, tutti i sintomi di una vita malsana – bassa autostima, bulimia, volatilità emotiva, uso indiscriminato dei canali social e una grave dipendenza da droghe che la piantò in rehab ad appena diciotto anni, solo la prima di una serie di forzati ricoveri avvenuti a seguito di altrettante overdosi. Al netto dei risultati artistici, è già un miracolo che la ragazza sia ancora tra di noi.

Lungi dal voler sparare ai pesci nel barile, la figura di Demi Lovato è dunque utile per osservare un mondo dello spettacolo che non sembra cambiato molto da quando i Jackson Five venivano presi a cinghiate negli anni Settanta. Ma cosa ne è degli ultimi sopravvissuti? Nel caso di Demi, la strategia sembra essere un misto di stakanovismo e noncuranza: “It’s Not That Deep” è già il nono album di studio in soli trentatrè anni d’età, ennesimo compendio dance-pop per scrollarsi di dosso il passato Disney puntando sull’immediatezza di ritornelli enfatici e interpretazioni accorate.
Innegabilmente, ogni tanto la formula funziona; da qualche parte tra l’aggressività melodica di Kesha, il pop formato hyper di Charli XCX e l’aura da femme fatale elettronica di Madison Beer, l’autrice ha sganciato un trittico di singoli certo formulaico ma tutto sommato piacevole – “Fast”, “Here All Night” e “Kiss” – anche se è l’incalzante nostalgia alla Olivia Newton-John di “Let You Go” il pezzo migliore in scaletta. Attorniata da una cascata di synth argentati, “Sorry To Myself” non brilla per originalità ma è un momento liricamente significativo col quale l’autrice fa mente locale al netto di ogni dolore passato.

Certo, nel complesso manca al lavoro una personalità definita. Demi è in lotta con i propri demoni e ogni nuovo passo è una conquista, non importa quanto piccolo o commercialmente sfortunato. Ma sappiamo bene quant’è inclemente l’industria discografica; tra tentazioni club (“Frequency”, “Say It”), scomodi vestitini pc-music (“Little Bit”, “In My Head”), inevitabili annacquamenti di Taylor Swift (“Before I Knew You”) e una ballata da talent show alla Kelly Clarkson terribilmente mal dosata (“Ghost”), putroppo “It’s Not That Deep” insegue formule streaming nel tentativo di suonare potabile, ma perde terreno con ogni tonfo di fantasia.
Sulla lunga distanza, insomma, appare evidente il privilegio di quei teen idol che hanno avuto alle spalle una famiglia preparata nei limiti del possibile per fronteggiare la pressione, come Miley Cyrus, Ariana Grande e i Jonas Brothers, e chi invece ha preso tutto sui denti, dagli eclatanti casi di Britney Spears e Justin Bieber alla stessa Demi Lovato. La giustizia non esiste; da un punto di vista prettamente musicale il destino di Demi è ancora incerto, e sarà difficile riacchiappare il successo che la investì tra il 2008 e il 2014 con un prodotto standard come “It’s Not That Deep”, ma se non altro la ragazza è presente e apparentemente serena – alla fine, è questa la cosa più importante.

24/12/2025