Da oggi il numero 26 del mondo scrive per noi. Un racconto in prima persona sulla vita del tennista professionista, tra sogni, ansie ed esperienze uniche dentro e fuori dal campo. Si parte dall’off-season
Luciano Darderi
24 dicembre 2025 (modifica alle 14:28) – MILANO
In quest’età dell’oro del tennis italiano, abbiamo la fortuna di poter contare su diversi top player accanto al re Jannik Sinner. Atleti, ragazzi che hanno molto da raccontare. Come Luciano Darderi, 23 anni, numero 26 del mondo: argentino di nascita, ma italiano di formazione. Reduce dalla sua migliore stagione, con il best ranking in carriera e tre titoli Atp. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua vita nel circuito, ha accettato e da oggi scriverà per noi il suo diario.
Alla cena di gala della Tennis Premier League, in India, faccio conoscenza con Alekh, lo speaker del torneo. Gli faccio i complimenti per la camicia che indossa, con il tipico colletto alla Nehru, e da quel momento nasce un’amicizia. Il giorno della partenza ricevo in dono proprio quella camicia, con un messaggio bellissimo. Un gesto semplice, fatto da una persona che ha meno possibilità economiche di me, ma di una generosità enorme. Mi riprometto di portargli un regalo la prossima volta, in segno di gratitudine. Sono situazioni che ti restano dentro, ricordi che ti porti per sempre nel cuore. Ed è bello condividerle in un diario con i lettori della Gazzetta: un’idea affascinante che ho colto al volo.
L’off-season, per me, è all’insegna del viaggio. Dall’Europa all’Argentina, dove trascorro due settimane con mia madre e la famiglia. Giorni semplici, fatti di relax e affetti, che culminano con un’esibizione di beneficenza a La Plata. Poi, di nuovo la valigia pronta. Un volo interminabile da Buenos Aires verso l’India, con scalo a San Paolo, poi Dubai e infine Ahmedabad. Ventiquattro ore in aereo, con l’ansia di perdere la coincidenza per lo sciopero dei piloti IndiGo e di restare bloccato a Dubai. Solo all’ultimo momento capisco che riuscirò a partire. Il tennis, spesso, comincia molto prima di entrare in campo. L’India mi colpisce subito. Un Paese affascinante e durissimo allo stesso tempo: tanta povertà, tanta miseria, ma anche tanto lusso. Un mondo che vive costantemente in contraddizione con se stesso. Ahmedabad, la città che mi ospita, è immensa.
Arrivo alle nove del mattino, dormo tre ore in camera, poi pranzo veloce e sono subito in campo. La Tennis Premier League è un’esperienza intensa. Il primo giorno di partite comincia con la colazione tutti insieme, la musica indiana di sottofondo e un’atmosfera davvero speciale. Allenamento al mattino: un’ora e mezza di atletica, due ore di tennis. Nel pomeriggio i match. Vinco il singolare e il doppio misto. La sera c’è la cena con sponsor e organizzatori: una partecipazione incredibile, un coinvolgimento vero. In India si sente la voglia di tennis di alto livello, il desiderio di crescere, di avvicinarsi ai grandi eventi del circuito.
Non tutto, però, fila liscio. A pranzo commetto l’errore più classico: pollo tikka masala, piccantissimo. Risultato? Finisco steso in camera con un mal di pancia tremendo e un match da giocare poche ore dopo contro il francese Muller. Non mi reggo in piedi. Chiamo il mio manager, Luca Del Federico, che corre a portarmi un disinfettante intestinale per cercare di rimettermi in piedi. Entro in campo comunque, ma perdo. Una cosa è chiara: evitare il cibo speziato è praticamente impossibile. Da quella sera adotto una dieta ferrea fino alla fine del torneo: pollo ai ferri e riso. La mattina ho un po’ più di scelta, con omelette, avocado e pane scuro. Solo acqua in bottiglia sigillata. Il torneo si chiude in semifinale, contro la squadra più forte, quella che poi vince il torneo. Vado via con la sensazione di aver vissuto qualcosa di straordinario. L’India ti colpisce con i suoi contrasti, ma soprattutto con la generosità delle persone. Una settimana fatta di emozioni e immagini che so già che non dimenticherò. Dhanyavaad India, grazie India.
È durante il viaggio di ritorno che arrivano i pensieri. Rifletto sul planning delle settimane successive, sull’organizzazione, su come gestire al meglio allenamenti, tornei e spostamenti. Poi termino la prima stagione della serie tv argentina En el barro, su Netflix. Fuori dal campo non sono una persona solitaria, mi piace essere circondato dagli amici. Serve un po’ di leggerezza, perché non si può pensare solo al tennis. Anche se il tennis, alla fine, resta sempre lì, al centro di tutto. Torno a Dubai, dove vivo da oltre un anno e dove resterò fino alla settimana prima di Auckland, il primo torneo della stagione. Qui ricomincia il lavoro vero, quello silenzioso. A Giuliano Basile, assistant coach, e Federico Berruezo, preparatore atletico, si aggiunge il fisioterapista Marcello Marini. Mio padre Gino no: in questi giorni segue il mio fratellino, Vito. Mi alleno anche con Jannik Sinner. È un ragazzo di poche parole e tanta sostanza. Solo allenamento e fatica. L’ultima volta era stato durante il Roland Garros. Rispetto al livello delle partite in India, è tutta un’altra cosa. La pesantezza di palla e la continuità nel palleggio fanno la differenza. Mi sono sentito come su un’astronave partita dalla Terra e sbarcata su Marte. Sì, Jannik è un marziano.
Questi sono test che mi servono tantissimo per capire cosa mi manca per salire di livello. Nell’ultimo anno sono entrato tra i primi trenta del mondo, l’obiettivo del 2026 è l’ingresso nei top 20. Non è un’ossessione, ma una direzione precisa. So che il tennis è uno sport che richiede sacrifici enormi, e ne sono pienamente consapevole. Però non sono uno che si tira indietro. Se c’è da fare una maratona ogni giorno per essere tra i migliori, la faccio. Se c’è da scalare una montagna, la scalo. È il mio carattere. La stagione sta per cominciare. Sempre in movimento, sempre in viaggio, sempre pronto a vivere nuove esperienze. Con un solo obiettivo davanti agli occhi: tirare fuori il meglio da me stesso, ogni giorno.
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