– Il chitarrista della band romana parla della sua avventura solista con l’album “Masquerade” che fa seguito a quella di Damiano. Progetto «nato da un’esigenza artistica» e dalla volontà di «raccontare me stesso e la mia visione della musica»

– Un omaggio al mito con un cast incredibile di ospiti: da Tom Morello a Serge Pizzorno, da Alex Kapranos a Chad Smith e Maxim. Le canzoni scorrono solide, ben arrangiate, spesso esaltanti sul piano dell’energia, ma faticano a imprimersi come visioni nuove 

Sono in pochi capaci di mettere insieme un cast che comprende l’icona dei Rage Against The Machine Tom Morello, Serge Pizzorno dei Kasabian, Alex Kapranos dei Franz Ferdinand, Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers, Nic Cester dei Jet e Maxim dei Prodigy. Nell’impresa è riuscito Thomas Raggi, chitarrista dei Måneskin, nel suo album Masquerade, terza avventura solista del gruppo vincitore di Sanremo 2021 dopo il disco del frontman Damiano, David Funny Little Fears, e i diversi singoli pubblicati dalla bassista Victoria De Angelis.

Thomas Raggi in Masquerade si dimostra la vera anima rock della band. In perfetto equilibrio tra ambizione e reverenza per le radici del rock, Masquerade si presenta come un progetto «nato da un’esigenza artistica» e dalla volontà di «raccontare me stesso e la mia visione della musica», dice Raggi, parlando di un processo creativo che ha coinvolto personalità leggendarie e aspiranti voci della scena contemporanea. 

Tom Morello e, a destra, Thomas Raggi

Al cuore dell’album c’è la produzione di Tom Morello, la cui presenza non è semplicemente tecnica ma narrativa: Morello non ha solo plasmato il suono, ma ha offerto a Raggi una sorta di legittimazione nel pantheon del rock internazionale. Morello stesso parla di Masquerade come di un ponte tra generazioni, un disco che «avvicina le nuove generazioni alla grandezza e alla gloria del rock’n’roll». 

Il risultato è un lavoro di otto tracce in bilico tra tradizione e sperimentazione: riff potenti, ritmiche incandescenti, collaborazioni trasversali che leggono il rock come linguaggio aperto e inclusivo. Alla chitarra, Raggi mantiene la sua identità: solida, tecnica, mai fine a se stessa; al canto, esplora un terreno nuovo, prendendo lezioni di voce per interpretare alcune delle canzoni e affidando altre a collaboratori il cui apporto arricchisce la tavolozza sonora del disco. 

Tuttavia, è proprio la fedeltà alla tradizione a rappresentare anche il limite del progetto. Masquerade raramente sorprende davvero. Le canzoni scorrono solide, ben arrangiate, spesso esaltanti sul piano dell’energia, ma faticano a imprimersi come visioni nuove. È un disco che convince più per coerenza che per urgenza, più per mestiere che per necessità espressiva.

Il capitolo voce è emblematico: Raggi canta con onestà e applicazione, ma non sempre con personalità. Quando affida i brani ad altri interpreti, l’album guadagna colore e dinamica; quando resta solo, emerge una certa prudenza, come se il frontman fosse ancora un ruolo da abitare fino in fondo. Non è un difetto, quanto una fotografia di un artista in transizione.

«Ho cantato per la prima volta e ci sono due canzoni con la mia voce», racconta. «Tutto è iniziato con uno strumentale alla chitarra, e poi pensavo a un ritmo di batteria, e la voce era l’ultimo passo. Quindi avrei provato a cantare alcune melodie e dopo ho preso alcune lezioni e mi sono reso conto che forse la mia voce non era così male».

La tracklist è un mosaico di contributi: Nic Cester dei Jet e Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers imprimono un’impronta rock classica in Getcha!, Matt Sorum aggiunge carica in Keep the Pack, mentre Alex Kapranos dei Franz Ferdinand reinterpreta You Spin Me Round (Like a Record) dei di Dead Or Alive con un approccio personale. Masquerade parla di scene vissute in studio a Los Angeles, tra Jimi Hendrix e Sunset Strip, e di una comunità di musicisti che si scambia storie e amplifica l’energia di ciascun contributo. 

Quello che emerge forte dalle otto canzoni non è semplicemente un album solista: è un manifesto di identità. Raggi non cerca di staccarsi dai Måneskin — e lo ha chiarito più volte — ma trova nello spazio solista un’occasione per riaffermare il valore della chitarra, della collaborazione e della tradizione rock. «Penso che la chitarra sia la parte principale del disco perché ogni canzone è partita da un riff, quindi è il mio disco in quel modo», spiega. «L’idea è quella di sperimentare in mondi diversi, il che penso sia importante per una band. Posso immaginare quando torneremo in studio che porteremo molti elementi diversi perché ognuno è stato in un viaggio diverso. È una cosa fantastica, e penso che aiuterà molto con il processo creativo della band. Penso che ci sia qualcosa di buono nel fatto che tutti abbiano spazio per sperimentare. Quando torneremo e scriveremo nuova musica sarà così potente».

  • E ora che hai lavorato con così tante persone, chi aggiungeresti alla tua futura lista di collaborazioni da sogno?

«Robert Plant sarebbe fantastico: ho visto il suo concerto a Londra ed è stato fantastico. Anche Lenny Kravitz e Yungblud sono incredibili. Mi piace l’idea di coinvolgere altre persone, ma quando ho pensato a questo disco, tutto è venuto molto naturale e ho solo sperimentato e messo insieme il tutto, quindi vedremo».