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Ci sono morti che fanno rumore.
E poi ce ne sono altre che abbassano la voce, come quando una corsa finisce e resti solo il battito nel petto.
Michele Dancelli se n’è andato così. In punta di piedi.
E con lui se ne va un modo di stare al mondo prima ancora che di stare in bicicletta.
Sapevo che stava male. Lo sapevo davvero. Avevo persino il suo numero, arrivato qualche mese fa da Franco Balmamion. L’ho guardato sul telefono più di una volta. Ma non ho chiamato. Non me la sono sentita. Perché ci sono momenti in cui il mestiere deve fermarsi, fare un passo indietro, e lasciare spazio al rispetto. Alla fragilità. Alla fatica di chi ha già dato tutto.
APPROFONDIMENTI
Avrei voluto chiedergli di mio padre, Gigi Mele. Avrei voluto riportarlo indietro a quel 1964, alla Coppa Placci di Imola. Lui giovane, al secondo anno da professionista, quarto al traguardo. Papà subito dietro, al crepuscolo della sua avventura. Due strade che si sfiorano senza sapersi.
Due vite che si incrociano per un attimo, come accade spesso nel ciclismo e quasi mai nella memoria.
Ora che Michele non c’è più, quel silenzio pesa. Ma forse è giusto così. Perché anche il silenzio, a volte, è una forma di carezza.
Il bambino senza padre e la bici come destino
Michele Dancelli nasce a Castenedolo l’8 maggio 1942, nel pieno di una guerra che toglieva più di quanto desse. Il padre muore quando lui ha quattordici mesi. Non ne avrà mai il ricordo. Cresce con una madre, Teresa, e sei fratelli, imparando presto cosa significa resistere.
La bicicletta arriva per necessità, non per sogno. Serve per andare a lavorare, da manovale, nei cantieri di Brescia. Ma è proprio lì che Michele capisce tutto: pedalare è l’unico modo che conosce per andare avanti. E anche per scappare.
Non scapperà mai dalla fatica. Quella no.
Scapperà, invece, dagli schemi. Dai calcoli. Dalla prudenza.
Un corridore che non sapeva aspettare
Dancelli corre in un’epoca spietata, abitata da giganti: Merckx, Anquetil, Gimondi, Adorni, Motta, De Vlaeminck. Ma lui non abbassa mai lo sguardo. Non si mette in coda. Non aspetta il momento giusto. Lo crea.
Se stava bene, partiva.
Se sentiva il fuoco nelle gambe, si alzava sui pedali.
E se mancavano ancora 120 chilometri, pazienza.
Gianni Mura lo capì meglio di tutti e gli regalò un nome che oggi suona come poesia: “il sognatore nomade”. Perché Michele non aveva una casa tattica. Non aveva rifugi. Aveva solo la strada davanti e il cuore che spingeva.
Sanremo 1970: quando il coraggio diventa leggenda
E poi c’è quel giorno.
Milano-Sanremo 1970.
Settanta chilometri da solo. Settanta.
Una follia. Un atto di fede. Una dichiarazione d’amore al ciclismo.
Arriva solo, piangono tutti: Molteni, Albani, Colnago, persino i carabinieri sul traguardo. Michele li vede e allora piange anche lui. Dirà: “Quando ho visto piangere anche loro, non ho resistito”.
E subito dopo, con la schiettezza che lo ha sempre accompagnato: “Non mi hanno mai calcolato un campione”.
Forse aveva ragione. Perché Dancelli non era comodo. Non era incasellabile. Era troppo libero per essere gestito.
La maglia rosa e il prezzo del destino
Quattordici giorni in maglia rosa. Undici tappe al Giro.
Il primo a portare la maglia rosa sull’Etna. Anche questo, spesso, viene dimenticato.
Ma Michele ricordava tutto. Aveva una memoria feroce, precisa. Come chi ha vissuto ogni metro di strada senza risparmiarsi.
Poi la sfortuna. Crudele.
La caduta. Il femore rotto nel momento migliore. Il dolore che non passa più. E lui che, da vero corridore, risale in bici e pedala per venti chilometri, sperando che sia solo una botta. Non lo era.
Da lì in poi non sarà più lo stesso. Vince ancora, sì. Ma il corpo presenta il conto. E quando capisce che non può più essere se stesso, si ferma. A trentadue anni. Senza fare rumore. Senza chiedere nulla.
Quello che resta davvero
Resta un uomo che ha corso come si vive: senza risparmiarsi.
Resta un ciclismo che oggi ci manca da morire.
Resta l’idea che il coraggio, a volte, valga più di una vittoria.
E resta, per me, quel numero di telefono mai composto.
Quel “ti volevo chiedere di papà” rimasto in gola.
Ma forse va bene così. Perché Michele Dancelli non aveva bisogno di spiegarsi: aveva già raccontato tutto con le sue fughe.
Ciao Michele.
Continua a partire da lontano, ovunque tu sia.
Noi, da quaggiù, proveremo a ricordare come si fa.