di
Alessio Di Sauro

Laureato in Giurisprudenza, 51 anni, ha cambiato vita da un giorno all’altro: «Dopo una crisi di nervi durante una riunione». Ora guadagna di meno, «ma il tempo non ha prezzo. Sono un’anima irrequieta, magari un giorno farò un altro mestiere ancora»

Ripubblichiamo l’intervista di Alessio Di Sauro a Vincenzo Pezzarossa, pubblicata il 15 aprile, una delle più apprezzate dalle nostre lettrici e dai nostri lettori nel 2025

A un certo punto si è reso conto di avere Saturno contro, adesso è diventato «Giove 100». Ha cambiato vita e lasciato il suo lavoro da manager perché sentiva di essersi trasformato in «una creatura mitologica, metà uomo e metà sedia». Vincenzo Pezzarossa ha abbandonato la poltrona e si è più prosaicamente accontentato di un sedile.



















































Professione?
«Felicemente tassista. Ma non è sempre stato così».

Esistenza componibile la sua, come una libreria di quell’Ikea per la quale per anni ha girato il mondo da dirigente: l’ha riempita di volumi, ogni tanto ha aggiunto un nuovo blocco. Giornalista, insegnante, esperto di marketing, businessman. Poi, in un mercoledì di pioggia svedese di sette anni fa, la decisione di cambiare tutto. Di rallentare, di tornare dalla sua famiglia, alle origini, a Milano, e pazienza se lo stipendio è un terzo di quello di prima. Al posto di chiedersi perché, si è domandato «perché no». L’ultimo ripiano dello scaffale reca la dicitura di conducente. Ma «di posto ce n’è ancora».

Quindi faccia capire: non esclude di cambiare di nuovo mestiere?
«Ho solo 51 anni e sono un’anima irrequieta. Chissà».

Faceva il manager in Svezia, oggi guida il taxi a Milano. Alla faccia dell’irrequietezza.
«Vivevo a mille all’ora, avevo bisogno di rallentare. Gli inglesi lo chiamano downshifting. Stavo perdendo mia moglie e mia figlia, volevo recuperare il tempo con loro. E scrivere, la mia grande passione».

In effetti ha raccontato la sua storia in un libro.
«Si intitola Che Dio tassista».

Senza apostrofo.
«Per certi versi noi conducenti abbiamo un che di sacerdotale, con noi i passeggeri si lasciano andare al racconto di peccati e virtù. Forse perché la sera, col buio, come avviene col prete nel confessionale, parlano senza vederci negli occhi».

E lei chi vede dallo specchietto retrovisore invece?
«Tutti e di tutto. La ragazza in lacrime che ha appena scoperto di essere stata tradita dal fidanzato, la signora figlia di un ambasciatore della Sierra Leone a cui un giorno venne rivelato di avere 100 tra fratelli e sorelle, e che si era data appuntamento con tutta la famiglia allargata per ritrovarsi a Milano».

Nientemeno.
«A volte ti dicono tutto esplicitamente, a volte le situazioni le carpisci da te. In fondo questo mestiere ci consente di alimentare un po’di sano voyeurismo, la curiosità di osservare da vicino uno spaccato di umanità. Chi sono, cosa pensano, con chi parlano al telefono. I loro tic».

Una sorta di Alberto Sordi ne Il tassinaro.
«Preferisco immaginarmi Frankie Hi-Nrg alla guida nel video di Quelli che benpensano, sarà che faccio quasi sempre il turno di notte».

Però la canzone recitava «Sono intorno a me, ma si credono meglio».
«Diciamo che di gente maleducata ce n’è tanta».

Profilo tipico?
«Non c’è, anche l’età è trasversale. Si va dai ragazzini che appena salgono ti fanno “bella macchina bro, corri zio” prendendosi una confidenza che tu non gli hai mai dato, agli anziani del “perché non è andato di là” o del “secondo me il suo tassametro non è a norma” e mercanteggiano sul prezzo. Ogni tanto sei costretto a dire: “Scenda, è gratis”. A quel punto ritrattano con tante scuse, li hai presi in contropiede».

Una volta lei i taxi non li guidava, li prendeva.
«Sono laureato in Giurisprudenza alla Cattolica, ho iniziato a lavorare da cronista all’Indipendente, erano gli anni in cui collaboravano Travaglio e Massimo Fini, con Milo Infante mi occupavo della pagina dei motori. Poi, dopo un job posting, diventai coordinatore marketing per Ikea, settore design e automobili. Feci carriera, inventai una app che permetteva di capire in automatico se il modello dell’automobile permettesse di trasportare l’ingombro del pacco o se ad esempio fosse necessario abbattere i sedili. Paga ottima. Nel 2016 mi spedirono in Svezia».

Senonché…
«Facevo il pendolare su e giù da Milano per vedere la mia famiglia. Ci occupavamo di un progetto internazionale che prevedeva di ottimizzare le turnazioni dei lavoratori part-time nella grande distribuzione. Ero «Country Communication and Change Manager», non si lesinava con i job title. Eravamo più di 50, da ogni dove. In ossequio all’internazionalità del gruppo di lavoro ci si incontrava nei grandi alberghi, ogni volta in un Paese diverso. Inghilterra, Germania, Portogallo…».

Viaggiava per lavoro. In molti ci metterebbero la firma.
«Solo se lo fai per meno del 50 per cento del tuo tempo. All’inizio ti diverti, poi è alienante. Il mio matrimonio stava per crollare, ho perso gli anni della crescita di mia figlia. Il progetto sarebbe dovuto durare due anni, finì per sforare i cinque. Un giorno durante l’ennesima riunione ebbi una crisi di nervi. Capii che volevo, dovevo tornare a Milano. E lavorare per vivere, non il contrario».

E ha iniziato a cercare il suo Piano B.
«All’inizio non avevo idea di dove iniziare. Poi, un giorno, a Linate, l’illuminazione. Salii in macchina con un tassista laureato in Economia che aveva mollato tutto per costruirsi una seconda vita. E pensai, uhm, insomma…».

Non si è mai chiesto chi glielo ha fatto fare?
«Il primo giorno sicuramente. Fu un inferno: preso dall’ansia rimasi incastrato in manovra sulle rotaie del tram, poi incontrai un cafone nostalgico della Milano da bere che aveva da ridire sul fatto che avessi fatto scendere un anziano disabile davanti al portone accostando sulle strisce pedonali, infine sbagliai strada almeno un paio di volte. Corse gratis. E sì che mi ero preparato bene».

Come?
«Per esercitare la professione bisogna ottenere il certificato di abilitazione professionale ma soprattutto l’iscrizione al “Ruolo provinciale dei conducenti di linea”, meglio noto come “bollettone”, assai più ostico. Mi iscrissi a un corso serale, la prima volta che entrai per le lezioni in quello scantinato adibito a sala riunioni mi sembrò di essere capitato in un film di Almodovar. Dopo la lezione sulle normative di riferimento cominciava la liturgia dell’interrogazione di Toponomastica. Ciascuno tirava fuori mappe e cartine, e a domanda dell’istruttore il malcapitato doveva declamare ad alta voce, con ritmo e convinzione vie convergenti, piazze e percorsi più brevi. Era un crescendo rossiniano e delirante, sembrava stessimo recitando tutti insieme l’Ave Maria».

L’aneddotica sarà sterminata.
«Un giorno mi sembrò di essere su Fake taxi».

Scusi?
«Prelevai una ragazza straniera molto avvenente davanti all’hotel dei Cavalieri di Piazza Missori, mi disse che avremmo dovuto recuperare il marito in Centrale per poi andare a Cernobbio. Lei insistette per sedersi davanti nonostante la normativa non lo consentisse, adducendo mal d’auto. Lui dal canto suo si sistemò dietro e si mise, così sembrava, a dormire. Durante il tragitto iniziarono le avances, a un certo punto si spogliò. Io ero immobile, sudavo ghiacciato, ero terrorizzato da come avrebbe reagito il marito se si fosse svegliato. Arrivati a destinazione lei, nel frattempo ricompostasi, si allontanò stizzita; lui saldò il conto con un sorriso beffardo e una mano sulla mia spalla: “Lei è un idiota – mi disse – non ha idea di che occasione ha gettato al vento”. Puntavano al ménage à trois».

Tratta più lunga mai fatta?
«Un giorno alla Stazione un signore mi chiese di portarlo a Rimini. Gli feci notare che se avesse preso il treno ci avrebbe messo la metà e pagato un decimo, ma lui non era convinto. Alcune persone hanno la fobia della condivisione degli spazi. Pagò 500 euro di corsa, bontà sua. Durante il Covid succedeva di frequente».

Pregi del suo mestiere.
«Potere organizzare il mio tempo, di solito attacco alle 16 e smonto alle due di notte. Prima, da manager, era no-stop. Fermarmi a prendere un caffè se ne ho voglia. Vedere la mia famiglia».

Difetti.
«È comunque usurante. E poi c’è il tema della sicurezza. Dipende sempre da chi incontri, è un terno al lotto».

Rapine?
«Una volta, mi puntarono un coltello e chiesero l’incasso. Ma erano più disperati che professionisti, si spaventarono delle possibili conseguenze e scapparono».

Ancora convinto della sua scelta?
«Vedo crescere mia figlia, mia moglie è orgogliosa di me. Lo stipendio non è quello di un tempo ma non ho mai pensato fosse una “retrocessione”. E comunque mi sono arrivate un paio di proposte interessanti dal mondo del marketing… tempo al tempo, come ho detto di spazio ce n’è ancora».


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25 dicembre 2025 ( modifica il 25 dicembre 2025 | 14:40)