Il 18enne mancino ha riportato il trofeo Bonfiglio in Italia dopo 13 anni e punta in alto: “Ho bisogno di giocare tanti Challenger per salire in classifica, e ora finalmente prendo la patente così posso spostarmi da solo. La mia fidanzata? È la sorella di Paula Badosa”
Giornalista
25 dicembre – 18:55 – MILANO
Jacopo Vasamì ha riportato in Italia il titolo del prestigioso Trofeo Bonfiglio dopo 13 anni, da quando ci riuscì Gianluigi Quinzi. Ha deciso di iniziare quest’anno la corsa nel tennis dei grandi dopo aver raggiunto i quarti al Roland Garros junior. Il mancino, cresciuto alla Rafa Nadal Academy, è tornato da circa un anno a “casa”, al Nomentano di Roma, dove lavora con il coach di quando era giovanissimo, Fabrizio Zeppieri. I primi passi sul circuito pro’ sono stati incoraggianti: ha raggiunto i quarti al Challenger 100 di Monza (per lui solo il secondo torneo disputato in questa categoria) e successivamente le semifinali al Challenger 75 di Milano. È solo un inizio, ma a 18 anni compiuti il 19 dicembre, Vasamì ha una strada lunga e appassionante da percorrere. Il suo essere mancino lo rende “ricercato” e a Wimbledon ha anche fatto da sparring a Jannik Sinner prima del match con Shelton, uno che col sinistro picchia forte. Un po’ come lui, che per imparare come si fa si è anche allenato a Dubai con il “Martello” di casa, Matteo Berrettini.
Auguri Jacopo, com’è compiere 18 anni?
“Mah, non ho notato molta differenza dai 17…”.
Non ci crede nessuno. Come tutti i diciottenni non vedrà l’ora di prendere la patente…
“Ah sì, quello sì, sto già studiando e il timing è perfetto, perché in questo momento ancora non viaggio. Avere la macchina significa essere più liberi, muoversi più facilmente. E soprattutto sul piano pratico essere maggiorenne mi eviterà procedure e autorizzazioni legate alla minore età. Anche per contratti e viaggi è tutto più semplice. In generale è un sollievo”.
“No, sono un tipo tranquillo, ero a Tirrenia al centro tecnico con altri giocatori. Nulla di eccessivo, c’è una stagione piena di Challenger da preparare”.
A proposito, quando riparte la sua stagione? La aspetta un 2026 ricco di traguardi da tagliare.
“Inizio con il cemento, tra febbraio e i mesi successivi, giocando in Europa. Poi tra marzo e aprile comincia la parte lunga dei Challenger su terra in Italia. Sarà un periodo molto ‘italiano’ con Napoli, Monza, Modena, Roma, Sassuolo, Perugia… ce ne sono tantissimi. È un vantaggio avere così tanti tornei in casa. Anche per questo la patente è importante: sono trasferte che spesso puoi fare in auto. Così mia madre non deve accompagnarmi continuamente in aeroporto all’alba o in stazione la sera”.
Santa mamma Concetta: che rapporto ha con lei?
“Molto buono. Non è severa nel senso classico: mi ha sempre fatto vivere anche fuori dal tennis, come un ragazzo normale. Ho fatto un percorso scolastico normale e mi sono diplomato. Ora, crescendo, è più coinvolta: non solo come genitore, ma anche nell’organizzazione. Gestisce molte cose: viaggi, contratti, parte economica. Io devo concentrarmi sul campo. Organizzare voli, alberghi, pagamenti e gestione del team è un lavoro vero e proprio: io non potrei farlo, e il mio manager Ugo Colombini non può coprire tutto da solo”.

“Siamo uniti, molto vicini d’età: mio fratello è un anno più grande e mia sorella un anno più piccola. Loro fanno vite normali: mio fratello è all’università, mia sorella al liceo. Mi seguono, ma senza che la mia carriera condizioni la loro vita: quando possono guardano le partite, altrimenti no”.
Parlando di figure di riferimento: come vive il rapporto con il suo coach?
“Sono autocritico e cerco sempre di capire cosa non funziona. È chiaro che non è piacevole sentirsi dire cosa fai male, ma l’allenatore non è solo quello: deve anche valorizzarti, ricordarti i punti forti, darti fiducia e farti dubitare meno. La parte ‘scomoda’ è lavorare sulle lacune. In partita magari perdi e attribuisci la sconfitta a un motivo, ma non è quello: devi ascoltare analisi che non ti fanno piacere. Succede anche fuori dal campo: in palestra magari vorresti fare un lavoro che ti gratifica, e invece ti chiedono ciò che serve davvero, come la resistenza. O sull’alimentazione: pensi di fare bene e ti viene detto che devi migliorare. Fa parte del loro ruolo”.
Passiamo alla vita fuori dal campo. La sua ragazza, Jana, è la sorella di Paula Badosa. Come vi siete conosciuti?
“Lei non fa la tennista ma ci siamo conosciuti a Roma, agli Internazionali. Era nel periodo del suo compleanno: Paola l’aveva portata al Foro come regalo. Io ero lì e ci siamo conosciuti, in modo del tutto casuale. Lei vive in Spagna, la nostra è una relazione a distanza, ma va bene così. Ci sentiamo e ci vediamo quando è possibile. Però l’ho portata all’Olimpico a vedere il derby. Io tifo Roma”.
Fuori dal tennis, come impiega il tempo libero?
“Mi piace lo sport in generale: calcetto e padel quando posso. Però oggi il tempo libero è molto meno di un anno fa, forse un terzo, e spesso non sono nemmeno a casa. Quando posso preferisco stare con i miei amici. Oppure a casa: un film, un po’ di telefono con la mia ragazza. Sono cose semplici, anche perché spesso sono stanco”.
A livello di relazioni nel circuito: con chi è più legato?
“Con gli italiani in generale. I ragazzi più affermati cercano spesso di dare una mano ai giovani: ti prendono ‘sotto l’ala’ e ti danno consigli. Io sono socievole e poi, essendo mancino, in allenamento spesso faccio comodo: i mancini sono rari”.
A proposito di Italia, la Coppa Davis è un obiettivo nel futuro?
“Sì, ma in Italia per giocare la Davis di solito significa essere tra i primi 50 del mondo. È un traguardo che indica che hai raggiunto un livello molto alto. Il primo obiettivo è giocare gli Slam il prima possibile. Non mi do una scadenza precisa: se riesco già a Parigi bene, se riesco a New York bene, altrimenti punto all’Australian Open del 2027. Per entrare negli Slam serve più o meno essere intorno alla 230-240. Io sono circa 650, quindi devo giocare tanti Challenger e tante partite. Mi piacerebbe anche qualificarmi per le Next Gen l’anno prossimo: sarebbe molto bello”.
Il tennis è anche uno sport solitario. Come vive la solitudine?
“Bene. Mi piace stare da solo. Ho pochi amici, ma molto buoni”.
Questo articolo è tratto da Smash, newsletter G+ a cura di Federica Cocchi, in uscita ogni martedì. Per iscriversi e per informazioni sulle altre newsletter di Gazzetta clicca qui
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