L’ultima volta che ho detto “scusa” – anzi, “scusi” – è stato qualche giorno fa. Uscivo con la macchina da un parcheggio e ho chiesto a un autista in doppia fila di avanzare un po’. «Scusi, potrebbe gentilmente…». Avrei potuto benissimo dire: «Per piacere,potrebbe spostare l’auto? Grazie».Una richiesta chiara, educata, persino autorevole. E allora perché mi sono scusata? In fondo, non ero certo io quella in torto.

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«Scusa il disturbo», «Scusa se dico la mia»

«Scusa il disturbo», «Scusa se dico la mia», «Scusa… non voglio sembrare invadente». Vi siete mai accorte di quante volte pronunciamo frasi così, ogni giorno? Senza volerlo, siamo campionesse olimpiche di scuse non necessarie. D’accordo, il più delle volte sono semplici formule di cortesia. Ma spesso nascondono qualcosa di più: timidezza, insicurezza, bisogno di essere accettate, ed è meglio saperlo.

Decidi tu!

Almeno è quanto sostengono Tara-Louise Wittwer, scrittrice e influencer tedesca autrice del bestseller Scusa, ma non chiedo scusa (Giunti), e Flavia Trupia, docente di retorica e divulgatrice che, nel suo Prendiamo la parola (Piemme), ha osservato da vicino le donne in carriera: «Le parole sono potere. E quel potere dobbiamo riprendercelo».

Ci scusiamo per cosa?

Secondo Wittwer,siamo soprattutto noi del gentilsesso a infilare un “mi dispiace”in ogni frase, come se la nostra stessa esistenza fosse qualcosa da giustificare. A forza di scusarci per ogni sospiro, opinione o presenza, però, abbiamo trasformato, a nostra insaputa, un gesto di gentilezza in un riflesso automatico di sottomissione e sabotaggio interiore. Con il risultato di svalutarci da sole.

«Ciao, scusa se ti disturbo… »

Le scuse giuste possono riparare un errore e rafforzare un legame

Ho un’amica ad esempio che, ogni volta, che chiama qualcuno, inizia con: «Ciao, scusa se ti disturbo… scusa davvero». Spara una raffica di premesse, come se volesse dire: «Spero tu abbia tempo per me, prometto che sarò invisibile». «Non è gentilezza» spiega Wittwer. «È sopravvivenza. Una forma di autocensura che ci ha insegnato, nei secoli, a occupare meno spazio, a non essere mai troppo: troppo competenti, presenti, o più in vista del dovuto. Così siamo arrivate a smussare i nostri pensieri come spigoli da limare. Basta!».

Quelle brave ragazze

In effetti quante volte ci limitiamo, per riflesso condizionato, a affermare: «Decidi tu!», «No davvero, per me va bene tutto». Forse troppe. «Tutte queste formule ci vengono insegnate fin da bambine. A scuola, alziamo la mano per parlare» osserva la psicologa Irene Sanguineti, autrice di Parliamoci sempre (Sperling & Kupfer).

«Con il tempo si finisce per scusarsi sempre. Chi ha una bassa autostima, poi, tende a chiedere il permesso per ogni cosa: è un modo per calmare l’ansia, la paura del rifiuto, il bisogno di essere rassicurati. Quando dico “Scusa se ti disturbo” e l’altro risponde “Ma no, dimmi pure”, io mi sento legittimata a parlare» continua Sanguineti.

Le parole hanno un peso

Taylor Swift (Photo by Frazer Harrison/Getty Images)

«Le parole hanno un peso. Se chiediamo sempre scusa, però, stiamo dicendo – a noi stesse, prima ancora che agli altri – che abbiamo bisogno di un permesso per vivere». Cinema, pubblicità, social: le “brave ragazze”sono sempre miti, educate, sorridenti. Quelle che alzano la voce diventano “isteriche”, “antipatiche”, “difficili”.

Lo racconta anche Taylor Swift nel suo biopic Miss Americana. In un passaggio, la cantante si rende conto di quanto spesso si giustifichi per tutto. «Scusa, ho fatto troppo rumore nella mia casa, comprata con i miei soldi, guadagnati con le mie canzoni?» ironizza.

Campionesse mondiali di scuse nel lavoro

«È un altro esempio lampante della cultura patriarcale in cui viviamo. La Swift lo ha descritto anche nella canzone The Man: «Se fossi un uomo, sarei il migliore». Come a dire: le scuse, a volte, sono una corazza per difendersi da un mondo al maschile che ci vuole “meno”» continua Sanguineti. Vogliamo evitare i conflitti In ambito professionale, tutto si amplifica.

Una ricerca dell’ Harvard Business Review mostra che le donne sono più efficaci nella comunicazione. Eppure, infilano sempre la parola “scusa” nelle e-mail. Quando sono in una riunione, in un dibattito pubblico, spesso poi abbassano il tono, si fanno piccole, non alzano la mano.

«Ci scusiamo perché ci sentiamo ancora “ospiti” in certi contesti»

Trupia parte proprio da questa osservazione. «Ci scusiamo perché ci sentiamo ancora “ospiti”in certi contesti. Prendere la parola viene visto come un atto di vanità. Va detto, che abbiamo anche un pessimo rapporto con l’errore: se sbagliamo, ci colpevolizziamo. E allora è meglio non emergere. Non candidarsi a una posizione. Non creare conflitti. Eppure chiunque sbaglia».

Racconta un episodio personale: quando era agli inizi, le chiedevano di portare l’acqua alle riunioni. «Dicevo sì per non creare tensioni. Invece avrei dovuto rifiutarmi, farmi valere. Il fatto è che, in fondo, mi sentivo una miracolata ad essere lì». Secondo la docente,le scuse possono essere usate in modo strategico, però.

“È un buon momento?”

Cita una figura retorica: la excusatio propter infirmitatem, ovvero l’ammettere una difficoltà all’inizio di un discorso per non sembrare arroganti. L’esempio perfetto? Alcide De Gasperi alla Conferenza di Parigi nel 1946,quando esordì dicendo: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. Quella frase gli è valsa il rispetto dei “Grandi”».

Ci siamo confrontate anche nella redazione attualità di iO Donna. Abbiamo capito che, in effetti, ci caschiamo tutte quante. In altre parole, avremmo bisogno di una “detox da scuse”. Invece di “Scusa se disturbo”, potremmo semplicemente dire “È un buon momento?” o “Posso farti una domanda?”.

Il bon ton delle scuse

«Sia chiaro: chiedere scusa va benissimo» conclude Elisa Motterle, esperta di galateo e autrice di Bon ton pop al lavoro (HarperCollins), «ma solo se serve, quando davvero siamo in torto. Altrimenti, le parole perdono peso. Soprattutto, dentro di noi».

Anche Wittwer lo sottolinea chiaramente: «Non voglio contare quante scuse ho fatto in un anno, novanta o cento. Non sono la direttrice commerciale della mia empatia. Voglio chiedere scusa, certo. Ma solo quando commetto davvero degli errori. E, così, sarà d’ora in poi».

Piuttosto: ci dispiace sul serio quando chiediamo scusa, dopo aver sbagliato? Ci sarebbe ancora molto da discutere. Ma lo faremo, semmai, in un altro articolo. Scusateci…