di
Massimo Gaggi

Cosa c’è dietro alla raffica di misure e minacce, durissime, dell’amministrazione Trump contro l’Europa? Dal braccio di ferro tra Monti e Microsoft alle ultime leggi Ue contestate, la storia delle tensioni sulla regolamentazione della tecnologia – e l’ideologia assolutista dietro alle accuse sulla «censura»

Dal braccio di ferro della Ue, nell’era del commissario Mario Monti, contro Microsoft accusata di abuso di posizione dominate – una disputa iniziata nel 1998 e sfociata nella prima maximulta transatlantica nel 2004 – a una vera e propria «guerra fredda» sull’alta tecnologia, scatenata dagli Usa contro Bruxelles. 

Un’offensiva fatta di dazi punitivi e, ora, anche di messa al bando di personaggi, primo fra tutti l’ex Commissario Breton, accusati di essere paladini delle norme per la protezione degli utenti digitali. Leggi – il Digital Markets Act e il Digital Service Act – votate l’anno scorso ad ampia maggioranza e sostenute da tutti i Paesi dell’Unione.
 
Nell’era di Donald Trump e dei giganti tecnologici che lo sostengono, siamo passati bruscamente dai conflitti tra la Commissione Ue e singoli giganti della Silicon Valley che hanno violato le sue norme antitrust e quelle di tutela della privacy degli utenti, a una sfida lanciata dal governo americano che ha per oggetto natura e i limiti del free speech e della sovranità digitale. Con l’Europa che, dopo aver rinunciato a luglio a introdurre una digital tax invisa agli americani per disinnescare i dazi punitivi di Trump, oggi, col governo Usa che arriva a trattare funzionari e politici europei come fossero oligarchi russi sottoposti a sanzioni, si vede costretta ad affermare con un suo portavoce che »la sovranità normativa della Ue non è negoziabile».
     
Davvero Washington, dopo aver accusato le democrazie europee si essere illiberali, vuole costringere l’Europa a rimangiarsi le sue leggi? E come si è arrivati a tanto? 



















































Dallo scontro Monti-Microsoft alle leggi Ue contestate da Trump

Per oltre un quarto di secolo le tensioni tra Bruxelles e i giganti di big tech sono state un fatto endemico nel quale il governo americano non ha fatto interventi di grande peso anche perché fin dall’inizio, nel 1998, l’indagine Ue seguì una analoga denuncia contro Microsoft dello stesso ministero della Giustizia Usa.
     
Dopo Microsoft toccò, nel secondo decennio del Ventunesimo secolo, al nuovo gigante di internet, Google, condannato per tre volte a multe miliardarie per comportamenti anti concorrenziali: aver forzato le compagnie telefoniche a preinstallare nei loro smartphone il sistema operativo Android se volevano avere accesso ai servizi digitali del suo Play Store; aver favorito i suoi prodotti e la sua piattaforma nei servizi di shopping; aver bloccato la pubblicità dei concorrenti dando la preferenza a quella veicolata dalla sua rete, AdSense.
   
Col GDPR, il regolamento per la protezione dei dati votato nel 2016 ed entrato in vigore due anni dopo, l’Europa fa un salto di qualità: non più solo concorrenza e mercato, ma anche privacy, protezione dei dati dei cittadini da tenere al riparo da usi abusivi di big data. Non cause con singole aziende ma un nuovo sistema che costringe le grandi imprese digitali, quasi tutte americane, a ripensare il loro modo di raccogliere dati «a strascico» appropriandosi di tutti quelli dei loro utenti e delle loro interazioni.
    
Con le due leggi di regolamentazione del 2024 (Digital Markets Act e Digital Service Act, ricordati sopra) e le prime sanzioni per le violazioni comminate ad Apple (1,8 miliardi di euro), Meta (797 milioni) e X (120 milioni), le tensioni diventano improvvisamente incendio. 

Filosofie differenti, dazi e un attacco alla sovranità normativa dell’Europa

La durissima reazione americana può essere interpretata in tre modi: 

1) la rottura degli argini di tensioni latenti e crescenti legate ad alcune differenze di fondo tra Stati Uniti ed Europa in materia di tutela dei cittadini e libertà delle imprese: i Paesi del Vecchio Continente, abituati ad un maggior livello di intervento pubblico, che mettono al primo posto la tutela delle libertà civili dei loro cittadini e la protezione dei consumatori mentre nel Nuovo mondo si punta soprattutto su dinamismo imprenditoriale, competitività globale e tutela della sicurezza nazionale. Il valore della tutela della privacy non è ignorato, ma rimane nelle retrovie: bisogna competere con la Cina che l’ha spazzata via. Partendo da quest’ottica, l’Amministrazione Trump percepisce le norme europee come barriere protezionistiche che colpiscono in misura prevalente imprese americane (inevitabile, visto che in campo digitale dominano quelle della Silicon Valley). 

2) Trump che Usa anche le regole in materia digitale per giocare la partita che più lo appassiona: quella dei dazi. A luglio Bruxelles ha rinunciato alla digital tax per ottenere la riduzione al 15% dei balzelli mozzafiato che il presidente americano aveva detto di voler imporre alla Ue. Ma per acciaio e alluminio i dazi sono rimasti al 50% e ad agosto, mentre l’Amministrazione Usa estendeva di nuovo il ricorso a maxidazi, applicandoli a molti prodotti che contengono quei metalli, il ministro del Commercio Howard Lutnick ha sollecitato la Ue a rivedere le norme digitali in senso più favorevole alle imprese Usa, promettendo, in cambio, un atteggiamento più morbido di Washington sui dazi.

3) La presidenza Trump che, nel secondo mandato, è autoritaria all’interno e imperiale nei rapporti internazionali, sta portando l’escalation nel rapporto coi vecchi alleati a un nuovo livello: se all’interno The Donald demolisce il sistema di pesi e contrappesi che per oltre due secoli ha garantito l’equilibrio della democrazia americana, all’estero mette sotto pressione crescente i suoi partner. Non solo la UE: anche la Gran Bretagna e la Corea del Sud sono sottoposte a minacce per aver varato misure digitali a protezione dei cittadini simili a quelle europee. Tutti attaccati non perché Washington non voglia questi Paesi come alleati. Ma sembra preferire alleati feudatari. 

Le dure parole del segretario di Stato Marco Rubio – la cui nomina, un anno fa, aveva fatto tirare un sospiro di sollievo agli occidentali che vedevano in lui la faccia moderata e dialogante del trumpismo – fanno, purtroppo, temere che si stia andando verso la terza ipotesi: «La nostra politica estera America First prevede che venga respinta ogni violazione della sovranità Usa». Rubio definisce, poi, le leggi europee che si applicano a imprese americane solo quando operano nel nostro continente «un eccesso di interventi extraterritoriali da parte di censori esteri». Con la moderazione dei contenuti immessi in rete per bloccare calunnie, diffusione di palesi falsità e odio, equiparati a bieca censura, anche se in passato Facebook, Twitter e le altre reti Usa hanno messo al lavoro decine di migliaia di «moderatori».
   
Ma nell’America di Trump, Vance e dei loro imprenditori-filosofi del tecnoautoritarismo fa testo solo la linea radicale del «figliol prodigo» Elon Musk: l’«assolutismo del free speech». Non a caso il salto di qualità nello scontro tecnologico con l’Europa arriva pochi giorni dopo il dirompente documento strategico Usa e la multa Ue a Musk (la più lieve di quelle fin qui comminate da Bruxelles). Incassata con sobrietà dall’uomo da 750 miliardi di dollari: si è limitato a chiedere lo scioglimento dell’Unione europea.

26 dicembre 2025 ( modifica il 26 dicembre 2025 | 07:26)