di
Leonard Berberi
Sei mesi dopo uno dei peggiori disastri (260 morti), proseguono gli scontri tra indiani e occidentali. Per gli esperti a spegnere i motori al decollo è stato il comandante. Il tentativo in extremis del primo ufficiale e le ultime parole
Un’ora dopo l’incidente del volo Air India 171 e con edifici e strade ancora in fiamme, alcuni uomini identificati come «funzionari» del governo indiano si presentano alla torre di controllo dell’aeroporto di Ahmedabad. Hanno fretta. In pochi minuti portano via alcune registrazioni audio, i piani di volo, chiacchierano velocemente con chi, verso pranzo, è stato in contatto con il Boeing 787 precipitato. L’obiettivo non è arrivare alla verità il prima possibile: a quello ci avrebbero pensato gli investigatori. Lo scopo è «controllare» la narrazione. Quando però ci si accorge che il velivolo non è caduto per un problema tecnico o un attacco terroristico, ma per mano di qualcuno all’interno della cabina di pilotaggio, la storia cambia. E la missione diventa una soltanto: come evitare che gli occidentali raccontino subito la verità, mettendo in imbarazzo un intero Paese.
Il 12 giugno 2025 il jet di Air India diretto a Londra Gatwick si schianta poco dopo il decollo dall’aeroporto di Ahmedabad, nell’India occidentale. In 260 perdono la vita: 241 dei 242 a bordo, 19 a terra. Gli interrogativi sono tanti. Le certezze, assenti. Da subito, grazie anche ai filmati con i telefonini, ci si rende conto che il Boeing 787 ha perso la spinta pochi secondi dopo aver lasciato la pista e prima di precipitare su un ostello per studenti di medicina. A indicare l’assenza di potenza è l’utilizzo della «Ram air turbine» (Rat), un dispositivo di emergenza che si attiva automaticamente in caso di perdita completa di alimentazione elettrica e/o di pressione idraulica causata dal venire meno di entrambi i motori.
«Oh, m…!», si sente nel file audio recuperato dalla torre. A urlare è qualcuno all’interno della cabina di pilotaggio. È questo uno degli elementi che spinge i funzionari indiani a non escludere un gesto intenzionale di chi in quel momento è ai comandi. Non una certezza, ma un sospetto. Ed è anche l’inizio di un tentativo, durato diversi giorni, di «contenere» il danno d’immagine il più possibile. È quanto spiegano cinque fonti occidentali e locali a conoscenza dei fatti, con le quali il Corriere ha parlato nelle ultime settimane. Tutte hanno chiesto — per ovvie ragioni — l’anonimato, perché non autorizzate a parlarne con la stampa oppure per evitare ripercussioni.
Dopo quei pochi secondi di audio, alla Direzione generale dell’aviazione civile (Dgca) scatta l’allarme. Il Paese, con tutto il suo orgoglio nazionale, non può mostrarsi come un posto dove i piloti ammazzano centinaia di persone. Non in un momento storico in cui Nuova Delhi sta puntando molto sul trasporto aereo, investendo miliardi e costruendo decine di aeroporti nuovi di zecca. E mentre il mondo si chiede cosa sia successo, qualcuno avverte: bisogna cercare di avere il pieno controllo delle «scatole nere» (che in realtà hanno colore arancione) e condividere il meno possibile con i soggetti coinvolti nelle indagini, americani in primis.

Per farlo, proseguono le fonti, l’opzione migliore sembra essere una soltanto: portare i due dispositivi — uno che registra i dati di volo (Flight data recorder), l’altro che memorizza gli audio in cabina (Cockpit voice recorder) — in una struttura militare e, una volta lì, provare a ricorrere alla clausola della «sicurezza nazionale» per limitare l’invio delle informazioni contenute, di fatto mettendo un muro tra il laboratorio e il mondo esterno. Il dibattito va avanti per un paio di giorni. Vengono affrontati diversi scenari, anche legali. Non è dato sapere quanto in alto, nella catena di comando, siano arrivate le discussioni.
Il 15 giugno — mentre ad Ahmedabad atterrano due investigatori statunitensi per dare una mano nelle indagini — prevale l’opzione che punta su due «pilastri». Il primo: non portare all’estero le scatole nere, nonostante l’offerta degli Usa. Il secondo: inviarle a Korwa — e non a Nuova Delhi — dove si trovano le strutture specializzate dell’Hindustan Aeronautics. All’interno c’è un laboratorio autorizzato dalla Dgca dal 2023 all’estrazione dei dati sia dal Cockpit voice recorder sia dal Flight data recorder. Hindustan Aeronautics, sottolineano le fonti, è una società aerospaziale sotto il controllo del ministero della Difesa. Una volta lì, è il ragionamento, la gestione delle scatole nere sarebbe passata ai vertici militari, che seguono altre regole.
Sul luogo dell’incidente gli americani provano a scattare foto. Ma trovano l’opposizione degli indiani: secondo loro le istantanee esistono già. Gli esperti si accorgono anche che interi pezzi di ciò che resta della fusoliera sembrano essere stati spostati, rendendo più difficile la ricostruzione della dinamica. Poi c’è la questione delle due scatole nere, recuperate il 13 e il 16 giugno. A Washington si rendono conto che qualcosa non procede per il verso giusto. Gli indiani non sembrano avere fretta di scaricare i dati. Non è chiaro se gli americani abbiano intercettato comunicazioni sensibili o se qualcuno abbia riferito il contenuto delle discussioni interne.
Il 16 giugno a Nuova Delhi si presentano la responsabile della divisione aerei commerciali di Boeing, Stephanie Pope, e l’amministratore delegato di GE Aerospace per i motori e i servizi commerciali, Russell Stokes. Visite particolari — secondo gli esperti — durante le quali, in particolare, Pope vuole da subito portare il suo supporto ai vertici di Air India. Le voci che girano sui faccia a faccia sono diverse. Nascondono però il vero tema: le frizioni tra gli investigatori occidentali e i colleghi indiani sulle indagini di un incidente finito sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo.
Gli americani sono preoccupati dalla «narrazione» diffusa, che potrebbe influire sulla serenità del team investigativo. Lo confermano anche i primi segnali di un certo sentimento anti-occidentale sui social media. Tra post, ricostruzioni fasulle, documenti creati con l’intelligenza artificiale, interventi in tv di opinionisti di chiara impronta nazionalista, piloti indiani che diffondono opinioni senza uno straccio di prova, la linea sembra chiara: la colpa è dell’aereo, l’aereo e i motori sono fatti in Occidente, l’incidente è causato dagli occidentali. Del resto Boeing ha già «dimostrato» di realizzare velivoli difettosi, come il sistema anti-stallo sui 737 Max che ha portato a due incidenti mortali nel 2018 e nel 2019.
I timori arrivano a Jennifer Homendy, numero uno del National Transportation Safety Board (Ntsb), l’ente investigativo statunitense coinvolto nelle indagini perché il produttore dell’aereo e dei motori è americano. Homendy, diventata un po’ il volto-simbolo della sicurezza nei cieli, segue la vicenda dall’inizio. Non solo perché l’incidente è così drammatico da rendere urgente l’assistenza degli esperti americani, ma anche perché il velivolo coinvolto, il Boeing 787, è tra i più utilizzati al mondo. Se c’è un difetto strutturale nel jet finora sconosciuto, è il suo ragionamento, bisogna agire subito per evitare altre vittime.

Per fare tutto questo bisogna scaricare i dati dalle scatole nere. I giorni passano. Il 23 giugno i dispositivi sono ancora depositati ad Ahmedabad, «sotto sorveglianza 24 ore su 24», assicurano le autorità locali. A Nuova Delhi si sono ormai convinti a portarli nel laboratorio di Korwa. E quando nella capitale sbarcano i due investigatori americani, i funzionari indiani comunicano che la sera dovranno andare a Korwa per l’estrazione dei dati dalle scatole nere. Homendy proibisce ai due investigatori di recarsi nella struttura dell’Hindustan Aeronautics. Secondo il Wall Street Journal — che ha svelato l’esistenza della bozza di una e-mail mai inviata agli indiani — Homendy teme per l’incolumità del personale e delle apparecchiature Usa portate «in una località a rischio terrorismo e conflitti militari».
Stando alle fonti consultate dal Corriere, c’è il timore americano di finire per legittimare manovre che potrebbero compromettere la piena trasparenza delle indagini. È uno dei momenti di maggiore frizione, come ha rivelato questo giornale quei giorni. Nessuno si fida dell’altro. L’Annesso 13 dell’Icao, l’agenzia Onu dell’aviazione civile, stabilisce che spetta alle autorità indiane guidare l’indagine. Nel caso specifico è il team dell’Aircraft Accident Investigation Bureau (Aaib) ad avere il controllo. A supportare il lavoro ci sono l’Ntsb, tecnici della Federal Aviation Administration, di Boeing e di GE Aerospace (che ha prodotto i motori).
Le norme Icao stabiliscono anche che i dati delle due scatole nere devono essere condivisi con i Paesi aventi diritto, come gli Stati Uniti. Secondo gli esperti consultati dal Corriere, il luogo fisico dell’estrazione dei file non cambia il «regime giuridico» dell’inchiesta. Ma se le autorità indiane estraessero i dati in ambiente militare e qualificassero in un secondo momento le registrazioni come «materiale sensibile» o «classificato», potrebbero invocare motivi di sicurezza nazionale, limitando o ritardando la condivisione delle informazioni, fornendo solo estratti o trascrizioni.
La situazione diventa più urgente quando gli investigatori americani guardano per la prima volta il blocco di comandi che controlla il flusso di carburante verso i motori dell’aereo. Le due levette sono nella posizione «Run»: al momento dell’impatto, quindi, i propulsori stavano ricevendo carburante. L’esatto opposto di quanto si vede nei filmati. Perché? È stato un problema al software? O le levette si sono spostate per qualche motivo — se sì, quale — nella posizione «Cutoff», tagliando il flusso di cherosene e quindi spegnendo i motori? In ogni caso il mistero va chiarito. E presto.

Negli Stati Uniti gli esperti dell’Ntsb provano al simulatore di volo di un Boeing 787 diversi scenari. In nessuno di questi — malfunzionamento, problema informatico, guasto, difetto di installazione del pannello, oggetto che cade sul pannello — le levette si muovono da «Run» a «Cutoff». Perché questo accada bisogna prenderle, sollevarle con una certa forza e spostarle. Agli investigatori, insomma, resta una sola spiegazione plausibile: qualcuno, all’interno della cabina, ha fisicamente manovrato le levette poco dopo il decollo. Diversi piloti consultati sottolineano che un gesto suicida avrebbe potuto avere successo soltanto in quei pochi secondi che separano il distacco dalla pista dal raggiungimento di una quota sufficiente a riaccendere i motori e dare spinta.
Gli esiti delle simulazioni, i dati in possesso, le informazioni raccolte in India rassicurano gli occidentali sull’affidabilità del modello. Il primo segnale che non si tratta di un problema tecnico sta nel fatto che i regolatori Usa — a partire dalla Faa — non comunicano alcuna modifica o intervento ai vettori che utilizzano il Boeing 787. Al costruttore del velivolo e a GE Aerospace non viene nemmeno chiesto di effettuare modifiche di alcun tipo. Quello che è successo al volo Air India quel 12 giugno, insomma, è legato a un fatto specifico. Gli americani, però, non possono dire nulla perché, tecnicamente, a guidare l’indagine sono gli indiani.
Ma il tergiversare sulle scatole nere irrita Washington. Ed è a questo punto che, il 22 giugno, Homendy usa la linea dura: le scatole nere non devono essere analizzate a Korwa; le autorità indiane hanno 48 ore per decidere se scaricare i dati a Nuova Delhi o a Washington, altrimenti l’Ntsb avrebbe ritirato il supporto americano all’indagine. Non è una mossa da poco. Con un passo indietro, i Paesi occidentali potrebbero avvisare i connazionali di non viaggiare in India o di non prendere un aereo con le sue compagnie. Ricadute potrebbero poi esserci anche sui vettori indiani che operano in Occidente. A Nuova Delhi si chiedono fino a che punto possano andare avanti con la loro linea di «preservazione».
Ecco perché, spiegano le fonti, il 24 giugno la situazione si sblocca: i dispositivi vengono trasportati nella capitale indiana. Nella notte tra il 24 e il 25 inizia l’estrazione delle informazioni, alla presenza degli investigatori statunitensi. Poche ore dopo, la lettura preliminare dei dati indica che qualcuno in cabina ha spostato gli interruttori da «Run» a «Cutoff» e una decina di secondi dopo entrambe le levette sono state rimesse in posizione «Run». L’11 luglio, nel cuore della notte in India, l’Aaib pubblica il rapporto preliminare, come richiesto entro un mese dall’incidente.

Nelle poche pagine gli investigatori indiani scrivono che subito dopo lo spegnimento dei motori un pilota ha chiesto all’altro perché avesse spostato gli interruttori, mentre l’altro pilota ha negato di averlo fatto. Il documento non fornisce ulteriori informazioni su questo passaggio decisivo, così come non identifica quale pilota abbia detto cosa. Allo stesso tempo non chiarisce se lo spostamento degli interruttori sia stato accidentale o intenzionale. Ma chi ha fatto cosa resta oggetto di discussione tra Nuova Delhi e Washington. E consente ai nazionalisti di montare tesi contrarie all’Occidente.
Secondo gli esperti occidentali aggiornati sui dati delle scatole nere, la dinamica appare in realtà chiara. Al decollo il pilota ai comandi era il primo ufficiale Clive Kunder. Il comandante Sumeet Sabharwal, con le mani libere, «quasi sicuramente» ha portato le due levette di rifornimento del carburante da «Run» a «Cutoff», a distanza di un secondo l’una dall’altra. Con mani e attenzione impegnate in quella fase delicata, Kunder avrebbe potuto fare poco per fermarlo. E quando se ne accorge chiede al comandante il perché di quel gesto, ricevendo in cambio prima un «non ho fatto niente» e poi un lungo silenzio.

Negli ultimi secondi, con il velivolo che perde velocemente quota, il Flight data recorder registra che il primo ufficiale Kunder tira verso di sé la cloche, provando a risalire, ma invano: il jet non ha un’altezza minima sufficiente per consentire la riaccensione dei motori e la risalita. In tutto questo, i parametri di volo abbinati alla cloche del comandante segnalano che non c’è stata alcuna manovra. Sabharwal è rimasto fermo ad assistere alla tragedia. «Oh m…!», sono le ultime parole di Kunder memorizzate nel file audio del sistema della torre di controllo.
In autunno Pushkar Raj Sabharwal, padre del comandante, assieme alla federazione indiana dei piloti chiede alla Corte Suprema indiana di ordinare un’indagine indipendente che prenda in considerazione cause diverse da un errore del pilota. Rivela che due funzionari dell’Aaib indiano avrebbero lasciato intendere che suo figlio avrebbe tagliato il carburante ai motori dell’aereo dopo il decollo. A novembre la Corte osserva — senza fornire prove — che non può essere attribuita alcuna responsabilità ai piloti del volo Air India precipitato.
Contattata, Boeing non ha replicato alle domande inviate, ricordando l’Annesso 13 e chi guida le indagini. «L’Ntsb rimanda tutte le richieste di informazioni sull’indagine del velivolo precipitato all’Aaib indiano», replica via e-mail Peter C. Knudson, portavoce dell’ente investigativo statunitense. Il Corriere ha chiesto informazioni — comprese quelle relative all’ambito militare delle strutture di Korwa — all’Aircraft Accident Investigation Bureau, ma senza ottenere risposta al momento della pubblicazione dell’articolo.
I funzionari dell’Aaib si sono confrontati anche di recente con la controparte statunitense ufficialmente per condividere informazioni aggiuntive. Ma le fonti spiegano al Corriere che tra gli elementi affrontati ce n’è anche uno, il più delicato: come scrivere un rapporto finale che non metta troppo in imbarazzo l’India e gli indiani. Tra le ipotesi di cui si discute a Nuova Delhi c’è anche quella di mettere nero su bianco che quanto successo a bordo del volo Air India sia stato un incrocio di eventi — con una probabilità «quasi nulla» di ripetersi in migliaia di anni — che ha portato al disastro. Insomma, il jet è caduto per circostanze impensabili, per una sfortuna senza precedenti. Una spiegazione che difficilmente Washington accetterà.
26 dicembre 2025 ( modifica il 26 dicembre 2025 | 10:02)
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