di Enrico Galletti

Mi sono trasferito subito dopo il liceo e ho capito che la città non ha mille volti, ma uno diverso a seconda di come la guardi. E ho imparato la lezione numero uno: diventare simpatico al “fruttiroeu” (sì, il fruttivendolo di quartiere)

Credo si chiami fruttiroeu. O, perlomeno, un giorno un mio collega più âgé l’ha chiamato così. Fruttiroeu. Ho 26 anni, ho dovuto cercarlo su Google. Che vi devo dire. E pensate che prima ancora che capissi cosa fosse, il fruttiroeu, avevo già pensato di stargli antipatico. Non ci sono andato subito, da quello del mio quartiere, quando dopo il liceo mi sono trasferito da Cremona in questa città che più che mille volti – come dice una specie di scioglilingua – di volto ne ha uno diverso a seconda di come la guardi. L’ho scoperto dopo, il fruttiroeu. E ho pensato di stargli antipatico quando mi sono accorto che in realtà, fra di noi, non mi pareva ci fosse un gran feeling. E sapete perché? Perché – ma questo lo avrei capito dopo – il rapporto con il fruttiroeu va coltivato. Questa è la verità: se tu ci vai un giorno, in quella bottega di quartiere, e poi di colpo smetti di andarci per, che so, uno o due mesi, non puoi pensare che ti accolga indicandoti la frutta e la verdura migliore, quella appena arrivata in bottega e, in definitiva, quella che conviene portarsi a casa. A darmi da pensare era il sentore che la mia vicina di casa, di fronte a me in coda, se ne andasse ogni volta con i prodotti migliori: «Le fragole ora no perché non sono più dolci», «Prenda queste arance, sono arrivate oggi, le devo ancora esporre».

Avevo come l’impressione che, con me, il fruttiroeu si limitasse giusto giusto a fare il suo, il “compitino”, ma nulla di più. Col tempo ho capito che lei, la mia vicina, quel “posto” se l’era guadagnato. Lei ci è nata in questa città, ci è cresciuta al terzo piano di quel condominio all’Arco della Pace, dove c’è pure il fruttiroeu, che una volta aveva meno case (perché erano più grandi) e meno via vai di gente figlia del business di un Airbnb. E allora perché è così nostalgica la mia vicina, e con lei tutti quelli in coda dal fruttiroeu in un mercoledì pomeriggio, che immancabilmente annuiscono, quando si fanno notare a vicenda che si stava meglio in una non meglio precisata vecchia Milano che ora sarebbe morta? Voglio dire (sentite le mie riflessioni fatte sottovoce mentre aspettavo il mio turno): se la vecchia Milano fosse definitivamente morta, non ci sarebbe più neppure quella bottega. O avrebbe cambiato pelle, diventando magari più democratica, che so, come un Glovo o un supermercato express qualunque (quelli piccoli che entri, prendi le tre cose che ti servono, paghi e in cinque minuti esci).

LA METAMORFOSI

Milano è diventata grande, più grande, certo. Questo non fa fatica a capirlo neppure uno della mia generazione. E non voglio dire che non sia cambiata, ma mi fa strano pensare che questa città che così tanti scelgono ogni giorno sia diventata così ruvida, così stretta da far dire a chi vi è nato: «Milano, non sei più mia». Milano è cresciuta, in verticale sopra ogni altra cosa. Intorno al fruttiroeu è sparito quasi tutto il pavé e un po’ di verde ma si sono moltiplicati i mezzi (quelli di trasporto) che avvicinano i luoghi e le persone. Sono arrivate le macchinine, i monopattini, le biciclette a noleggio: le prendi qui e le lasci dove ti pare. A Milano ci sono le aziende, l’innovazione («Là dove c’era l’erba ora c’è un data center», reciterebbe un adagio, se la questione finisse in musica), c’è lavoro. A proposito: quando, nell’ambito degli italianissimi campanilismi, dall’altro capo del Paese qualcuno ironizza: «A Milano pensate solo a correre!» io non mi sento offeso, anzi: provo pure un po’ di orgoglio. Perché dovrebbe essere offensivo vivere nella città italiana che detiene il record assoluto in termini di produttività? Alla fine, pensando a chi arriva da fuori, magari per studio, tutto questo un valore ce l’ha: sarà pure sparito un po’ di verde, ma l’offerta culturale qui si è moltiplicata, quella universitaria addirittura triplicata. Milano è un laboratorio di innovazione. Dal quale – certo – c’è il rischio che qualcuno resti escluso, ma dal quale deriva allo stesso tempo l’opportunità di non farsi escludere. Perché no, Milano oggi non è solo finanza e grattacieli (il che farebbe subito pensare all’enorme fetta di cittadini che da questa dimensione futuristica resterebbero tagliati fuori).

L’innovazione a Milano è trasversale: passa attraverso la mobilità (smart city, food delivery, sharing mobility…), il commercio, il lavoro, le relazioni. L’innovazione ha scolpito e riqualificato interi quartieri (pensate a Porta Nuova), portando qui talenti da tutto il mondo. Pensiamo a quante startup sono nate e cresciute all’ombra del Duomo, o hanno mantenuto lì il loro quartier generale. Come può, tutto questo, farci dire che era tutto meglio prima? A che serve farsi prendere dalla nostalgia, continuare a ripetersi che non c’è più la Milano di una volta, imbastendo un paragone tra due mondi che sono così cambiati, dentro e fuori la città?

Non siamo una generazione fuori dal mondo. Anche per noi a Milano non è tutta rose e fiori. Sarebbe falso affermare che non esistano problemi. C’è ad esempio – e questo ci tocca da vicino – il grande tema della crisi abitativa. Ve le ricordate, le tende fuori dalle università per protestare contro il caro affitti? Le abbiamo fatte noi. Ed era una priorità, il tema dei monolocali da 18 metri quadrati affittati a 800 euro al mese, in quei giorni. Poi, al capovolgersi dei riflettori, si è smesso di parlarne. Su questo Milano non può più aspettare, deve trovare delle strade: progetti di housing sociale per le famiglie in difficoltà, piani seri di edilizia popolare, fino alla creazione di studentati con canoni calmierati. L’occasione c’è: Milano Cortina, per citare il prossimo grande evento che ancora una volta, dopo Expo 2015, ci metterà in vetrina agli occhi di tutto il mondo, lascerà un’eredità importante, fondamentale sarà raccoglierla. Su questo fronte mi conforta, per esempio, sapere che il Villaggio Olimpico di Scalo Romana – secondo quanto promesso nei mesi scorsi – potrebbe diventare il più grande studentato convenzionato d’Italia e offrire 1.700 posti letto per universitari, con tariffe agevolate (il 25% in meno rispetto alla media di mercato) e servizi inclusi. La soluzione del problema? Certamente no. Un primo passo, ma è da lì che si può partire.

LA SICUREZZA

Non sfugge poi il grande tema legato alla sicurezza. È lì che Milano, finita sulle copertine di tutto il mondo per la pessima percezione che serpeggia tra i residenti, deve trovare la capacità di reagire. O il rischio è che ci si arrenda a un ritratto da sobborgo di Caracas che non corrisponde alla realtà. Mi hanno colpito e hanno fatto rumore, alcuni giorni fa, i dati del Censis che hanno certificato che, tra i giovani, il 67% ha paura a tornare a casa da solo di notte. Mi sono chiesto però, curandomi dapprima di farlo in silenzio (perché su questi temi ci vuole un secondo ad essere fraintesi) in quale metropoli un ragazzo o una ragazza (ma diciamo pure chiunque) sarebbe matematicamente tranquillo e sereno a rientrare a casa alle due, tre di notte. Eppure il problema resta: rapine, accoltellamenti, violenza minorile. Ne abbiamo prova ogni weekend leggendo le cronache della città. Il mio timore è solo che, come spesso accade, a fronte di problemi che pure esistono si rischi una pericolosa generalizzazione, la stessa che porta a dire: «Qui non si può più vivere». Io non credo che Milano sia a un punto di non ritorno. Mi fa male veder ricorrere, nel descrivere questa città, parole come “paura” e “terrore”, alludendo in molti casi persino al paragone con gli anni di piombo, con una stagione che Milano ha vissuto, ma che non descrive minimamente i nostri giorni (oggi si registrano circa dieci omicidi all’anno, negli anni Settanta la media era di 150). Non è che quelle parole, che campeggiano nei titoli e nei servizi in tv nei quali si evoca la paura di uscire di casa, fanno solo male alla storia di chi in quegli anni c’era e ha pagato un prezzo carissimo?

LE SOLUZIONI

Il problema sicurezza, oggi, non sembra irrisolvibile. Ha a che vedere in prima battuta con il controllo del territorio: pensiamo a quanto possa fare la tecnologia, anche solo con più telecamere. L’accoltellamento di qualche settimana fa in Corso Como, dove un ragazzo è stato ridotto in fin di vita per 50 euro, spiega quanto possa servire qualche “occhio elettronico” in più sparso per la città: senza quelle telecamere, forse staremmo ancora cercando di appurare l’identità degli autori di quella violenza. E poi certo, più forze dell’ordine sul territorio aiuterebbero. Ma per non annacquare la percezione di insicurezza serve essere estremamente concreti, uscendo dalle irrealizzabili proposte di schierare un poliziotto ad ogni metro quadrato della città, e cominciando piuttosto da una gestione più oculata delle risorse a disposizione.

Ricucire quello strappo che, a Milano più che in ogni altra città, oscilla tra il lusso e la percezione di degrado implicherebbe smettere di accusarsi reciprocamente su chi debba prendersi in carico il problema: se il Comune, lo Stato o noi, ma anche non pensare che tutto sia perduto. Che ieri sia sempre meglio di oggi.

Se vogliamo bene a questa città, guardiamola negli occhi. Aiutiamola a conservare quello che è stata, senza rinunciare a ciò che è diventata. 

26 dicembre 2025