Valerie Ziegler insegna al liceo Lincoln di San Francisco e ha creato un corso di «digital literacy». Negli Stati Uniti sempre più scuole e docenti sentono la necessità di aiutare i loro studenti a comprendere i meccanismi delle piattaforme digitali
«Stiamo mandando questi ragazzi nel mondo, e dovremmo dare loro le giuste competenze per affrontarlo. E la parte più difficile è che noi adulti stiamo imparando quelle competenze insieme a loro». Oggi, infatti, quelle competenze sono molto complesse da trasmettere perché hanno soprattutto a che fare con dei sistemi che neanche gli adulti conoscono. Valerie Ziegler, una professoressa del liceo Lincoln di San Francisco, ci sta provando. Ha raccontato al New York Times come ha strutturato il suo corso di «digital literacy» che propone ai suoi studenti di economia e storia. L’obiettivo è renderli consapevoli dei meccanismi che guidano le bacheche dei social media. Perché se questa viene definita la generazione di «screenagers» – una crasi tra screen, schermo, e teenagers – è anche vero che quello schermo spesso risucchia chi lo sta guardando senza dargli modo di essere un attore attivo. Con le più disparate conseguenze sulla sua psiche e sul suo modo di stare nel mondo.
La professoressa Zigler prova a spiegare ai suoi studenti come funzionano gli algoritmi che scelgono quali contenuti ci appaiono in bacheca, perché è importante verificare le fonti di un’informazione o una notizia e come farlo, quali sono i modelli di business che seguono gli influencer e quali sono le motivazioni che li spingono a parlarci di un prodotto o di un’azienda, come distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. L’intelligenza artificiale ha portato nuove sfide a chi si occupa di questi temi e prova a diffondere conoscenza digitale: i deepfake e i video generati sono ormai indistinguibili a una prima occhiata da filmati veri. Secondo la docente, è fondamentale per la nuova generazione sviluppare un senso critico che li porti a dubitare di tutto ciò che vedono online. E verificare ogni volta quanto quel video, quell’immagine, quel testo riportino contenuti autentici. Il suo corso di «digital literacy» è fortemente pratico. Gli studenti hanno discusso molto, ad esempio, sul caso di Zohran Mamdani, il nuovo sindaco di New York. Lui stesso ha sfruttato molto i social nella sua campagna elettorale. Ma sugli stessi social si è riversava una vera e propria valanga di post che lo riguardavano. Alcuni veri, altri falsi, altri che volontariamente riportavano informazioni non corrette.
Da un lato all’altro degli Stati Uniti si sente l’urgenza di imparare a governare questo fiume di contenuti impossibile da frenare. Sono molti i docenti che, come Valerie Ziegler, stanno provando a creare una discussione attorno al tema per svolgere fino in fondo il loro ruolo di educatori. Ma sono nate anche delle iniziative più ampie, come il News Literacy Project, una noprofit che monitora quanto nelle scuole si parli di digitale e quanto sia diffusa la consapevolezza dei pericoli dei social media nei giovani. Se con l’ex presidente Biden era nata una riflessione sull’importanza di portare l’alfabetizzazione digitale nelle scuole, oggi con la nuova amministrazione Trump la musica è cambiata. Tra finanziamenti federali per l’istruzione sempre più precari e la penalizzazione di chi cerca di studiare e analizzare la disinformazione online, le deboli iniziative nate negli anni scorsi hanno poco margine di crescita. Nonostante questo, almeno 25 stati hanno approvato una legislazione in materia. Anche se spesso si tratta di linee guida da seguire su base volontaria. Una discussione che però è nata e – barcollando – continua.
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26 dicembre 2025
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