Andrea Segre, il suo film su Enrico Berlinguer, “La grande ambizione”, ha incassato 4 milioni di euro, e il 25 per cento dei 650 mila spettatori aveva meno di trent’anni. Come lo spiega?

«L’ho chiesto a loro, in un documentario, Noi e la grande ambizione, che dopo l’uscita nelle sale cinematografiche dal 12 gennaio sarà visibile in esclusiva sulla piattaforma Zalab View».

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Cosa hanno risposto?

«Ci sono state tre risposte differenti. “Non ce l’hanno raccontato a scuola”, è stata la prima. E poi hanno confessato la fascinazione per un tipo di uomo politico che oggi non vediamo più. E in terzo luogo c’è in loro un senso di gioia per un sogno collettivo che stanno cercando con fatica».

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Una forma di nostalgia per qualcosa che non si è vissuto?

«Una nostalgia del futuro, precisamente».

Lei ha ripreso i dibattiti dopo le proiezioni.

«Alcuni, ma sono stati più di 150 solo in Italia. E ogni volta che si alzava un vecchio compagno per ricordare i bei tempi andati, mettendo a confronto la passione di allora con la scarsa partecipazione di adesso, i giovani non nascondevano la loro insofferenza».

Soffrivano il rimprovero?

«Sì, dicevano: non solo oggi è difficile per noi, ma ce lo rinfacciate pure».

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Cosa ha capito dei ragazzi?

«Che nella crisi del rapporto con la democrazia loro ne cercano uno più esistenziale. Un senso più profondo, atavico. E quindi scendono in piazza per i bambini uccisi a Gaza, contro i femminicidi, in difesa dell’ambiente che minaccia il loro futuro».

Berlinguer cosa c’entra? È un figlio del Novecento, morto più di quarant’anni fa.

«Sì, ma c’era in lui, fortissimo, un’identificazione tra vita e politica. Questo impressiona anche un giovane di oggi».

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Una ragazza, al cinema Anteo di Milano, a un certo punto si domanda: “Ci sono altri Berlinguer qui dentro?”

«Finché non li ascoltiamo, e non ci ascoltiamo, non li troveremo. Quando li ho riuniti per il documentario, in nove città, a tutti ho posto solo due condizioni: spegnere il telefono per due ore, e parlare del tempo odierno».

È una generazione che ha grandi slanci, ma poi non va a votare.

«Ma la voglia di politica non è scomparsa. L’azione politica si è fatta più pura, si connette con un bisogno che riguarda le loro vite. Solo che questa energia non si connette più con un partito, come ai tempi di Berlinguer. E quindi fatica a incidere».

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Non siamo dentro una grande regressione?

«Ma ogni crisi è produttiva se la si ascolta. Ed è quel che faceva Berlinguer: ascoltava. I giovani non frequentano più le sedi di partito, non hanno tessere, il loro bisogno lo esprimono nelle assemblee, nei cortei».

Incontrando alla Sapienza gli studenti Elio Germano, che interpreta nel film il segretario del Pci, dice: “Si contribuisce di più al cambiamento reale delle nostre vite partecipando a una riunione di condominio piuttosto che scrivere 75 post al giorno”.

«Sì, ma non bisogna essere luddisti. Bisogna imparare la fatica del confronto, ma poi saperla anche trasformare in un’azione di comunicazione che vada oltre il condominio. Lavorare solo sui post produce mostri».

Il Pci difendeva i lavoratori sporcandosi le mani.

«A maggio ho presentato il film su Berlinguer a New York. C’erano i banchetti dei sostenitori di Zohran Mamdani, all’epoca era dato all’8 per cento. Non lo conoscevo. Mi sono avvicinato e mi sembrava di essere tornato al Novecento quando mi hanno spiegato che avevano 40mila volontari, e che andavano casa per casa, distribuendo a ciascuna famiglia un questionario nel quale chiedevano di indicare le loro priorità».

Mamdani però ha vinto grazie a una narrazione.

«Ma la sua comunicazione non sarebbe stata efficace se non l’avesse unita a una fortissima capacità di ascolto. A Union Square mi hanno presentato il più giovane di loro, un ragazzo di 23 anni, che in un giorno era stato capace di bussare a settecento porte».

Alle presentazioni sono venuti anche i dirigenti dell’attuale sinistra?

«Sì, ma per ascoltare, mischiati tra il pubblico. Mi è piaciuto».

Lei viene da una famiglia comunista?

«No, i miei non sono mai stati tesserati. Si erano conosciuti a Padova, nel Sessantotto. Io ho 50 anni, e il Pci già non c’era più quando ho cominciato a votare. C’era il Pds, che ho incrociato da ragazzo alle feste dell’Unità».

Una parola che affiora spesso nel documentario è nostalgia. Non è un sentimento consolatorio?

«Penso che la nostalgia sia utile soltanto se legata ai contenuti ideali di quel tempo, che ha ancora tanto da dare sulle disuguaglianze, sulla giustizia».

Oggi il mondo com’è rispetto ai tempi di Berlinguer?

«Ci siamo rassegnati a un mondo verticalizzato, profondamente ingiusto. Lo stipendio di chi sta al vertice della piramide è gigantesco rispetto al salariato. E non c’è nemmeno lo spazio per pensare che tassare quel vertice sia giusto».

Il suo documentario ricorda un po’ “La Cosa” di Nanni Moretti. È stato un modello?

«La Cosa racconta un mondo che sta in crisi. Io ho provato a fare un viaggio nel rapporto esistenziale con la politica. In fondo è una ricerca sulla felicità collettiva».