di Alessandra Dal Monte
La direttrice Comunicazione e relazioni esterne del gruppo trentino si racconta nel quarto episodio di Sparkling Minds, le interviste alle menti frizzanti del vino italiano
Camilla Lunelli, nel 2025 ha festeggiato 21 anni alle redini di Ferrari Trento insieme ai suoi cugini Matteo e Marcello e a suo fratello Alessandro. Se dovesse scegliere una parola che rappresenta la visione della vostra famiglia e dell’azienda, quale sarebbe?
«Eccellenza. È una parola che per noi riassume tutto: la ricerca dell’eccellenza in ogni fase del processo produttivo, dalla vigna alla bottiglia, fino al calice. È il valore che abbiamo ereditato da Giulio Ferrari e che cerchiamo di portare avanti ogni giorno come famiglia, insieme a tutte le persone che lavorano con noi».
L’eccellenza può anche essere una condanna?
«Sicuramente è una responsabilità, ma io la vivo in modo assolutamente positivo, non come una condanna. È come un faro, un principio che ci impegniamo a seguire giorno dopo giorno. Porsi obiettivi ambiziosi espone anche a qualche delusione in più, perché significa fallire più frequentemente. Però sono fermamente convinta che sia il modo giusto di lavorare: è un approccio che richiede tanto impegno e tanta passione, ma che porta anche grandi soddisfazioni».
Se le chiedo una grande soddisfazione sua e dell’azienda, e invece un rimpianto o un errore, che cosa le viene in mente?
«Di soddisfazioni ne abbiamo avute molte, e alcune molto recenti. Il fatto di essere stati nominati per ben otto volte “Produttore dell’anno” ai campionati mondiali delle bollicine è qualcosa di incredibile. Avere portato le nostre bollicine al Quirinale, sul podio della Formula 1, in tanti contesti prestigiosi e importanti sono traguardi che restano nella storia della nostra casa e che ci riempiono davvero di orgoglio. Naturalmente c’è anche qualche rimpianto. Personalmente rimpiango il fatto di non aver insistito prima, e con più forza, sulla comunicazione del nostro impegno in tema di sostenibilità. Se ne parla molto negli ultimi anni, ma in realtà noi abbiamo sempre fatto e investito tanto: per le persone che lavorano con noi, per la comunità in cui siamo inseriti, per l’ambiente. Non averlo raccontato con la stessa fermezza prima che diventasse un tema “mainstream” è un mio rimpianto personale».
Che bilancio fa del suo ruolo di Direttrice comunicazione e pubbliche relazioni?
«Direi un bilancio estremamente positivo. Sono stati vent’anni molto belli e molto vari: ogni mio giorno lavorativo è diverso dal precedente. Mi piace molto che il nostro sia un mondo che ti porta a contatto con la terra: amo passeggiare in vigna, vivere la campagna. Ma allo stesso tempo le nostre bollicine ci portano in splendidi ristoranti, grandi hotel, nel mondo dello spettacolo e dello sport. È una varietà professionale davvero ricchissima».
Prima di entrare in azienda, però, lei viveva in un altro universo: lavorava come cooperante in Africa. Com’è arrivata fin lì e perché è rientrata?
«L’Africa è stato il coronamento di un sogno che avevo fin dai tempi dell’università. Dopo la laurea ho lavorato un paio d’anni in consulenza, ma coltivando sempre l’idea di restituire almeno in parte la grande fortuna che ho sempre sentito di avere: la famiglia, le opportunità, il luogo meraviglioso in cui sono cresciuta. Ho mandato un curriculum alle Nazioni Unite pensando che sarebbe rimasto lettera morta. Invece, dopo un iter di selezione, mi è stato proposto di partire per il Niger. Da lì sono seguiti quasi tre anni in Africa, prima con le Nazioni Unite e poi con una ONG: un’esperienza bellissima dal punto di vista umano e molto arricchente dal punto di vista professionale.
Oltre al Niger ha vissuto e lavorato anche in Uganda. All’epoca di bollicine ne beveva?
«Sì, e in modo del tutto inaspettato. L’Uganda è stata fonte di una grande sorpresa: il piccolo negozietto sotto casa mia a Kampala, gestito da un indiano, vendeva Ferrari. In azienda nessuno sapeva esattamente come le bottiglie fossero arrivate fin lì, ma c’erano, e avevano anche una buona rotazione. Perciò io avevo la mia bottiglia di Ferrari Brut sempre a disposizione, anche a Kampala».
Gliel’ha mai detto a quel signore che era della famiglia produttrice?
«No, non gliel’ho mai detto. Da questo punto di vista sono sempre stata molto “basso profilo”.
Che cosa l’ha riportata a Trento e in azienda?
«Il richiamo delle montagne, della famiglia, delle bollicine in cui sono cresciuta e che mi hanno sempre affascinato è rimasto fortissimo. In particolare mio zio Gino – lo zio che non aveva figli e che telefonava un po’ a tutti noi sparsi per il mondo per “richiamarci all’ovile” – mi ha proposto di rientrare e di assumere il ruolo di responsabile comunicazione. Ho accettato con grande piacere e così è iniziata questa avventura imprenditoriale in famiglia»
Nella vostra storia familiare colpisce il fatto che ogni generazione lasci spazio relativamente giovane a quella successiva. Perché?
«A me sembra una scelta estremamente lungimirante e spero che avremo la stessa lucidità quando sarà il nostro momento. Il nonno (Bruno Lunelli, ndr) ha lasciato quando si è trattato di costruire la nuova cantina a Ravina, l’attuale sede, portando l’attività fuori dal centro storico di Trento. Disse che era un’avventura per giovani che hanno tutta la vita davanti, non per una persona della sua età, allora quasi sessantenne. Allo stesso modo, mio padre Mauro e i miei zii hanno passato la mano relativamente giovani, pur restando presenti: hanno ancora il loro ufficio in cantina, sono una bella presenza per tutta l’azienda e sono sempre disponibili per una parola o un consiglio. Però l’operatività l’hanno lasciata a chi può leggere meglio il mercato dei prossimi 10, 20, 30 anni».
Avete anche siglato un patto di famiglia che regola il passaggio generazionale e i ruoli in azienda. Come funziona?
«Ci siamo seduti, ormai diversi anni fa, tutti insieme – familiari azionisti e familiari operativi – per fissare regole condivise. Abbiamo disciplinato il passaggio generazionale, il trasferimento delle quote e più in generale i rapporti tra azienda e famiglia, con l’obiettivo che la famiglia sia un motore e non un freno. C’è anche una clausola importante: quella di non avere i coniugi come manager operativi in azienda. Alla terza generazione – e con la quarta che avanza – la famiglia è già complessa, con molti attori. Evitare di portare in azienda eventuali separazioni, divorzi o questioni strettamente personali ci è sembrato un modo saggio per prevenire problemi. Ai nostri figli chiederemo, prima di essere considerati per ruoli manageriali, un percorso di studi coerente e esperienze lavorative esterne all’azienda».
Torniamo alle origini. Nel 1902 vengono presentate le prime bottiglie di bollicine a Trento, che all’epoca si potevano chiamare Champagne. Chi era Giulio Ferrari?
«Giulio Ferrari è stato un pioniere, un visionario molto contemporaneo. Era un ragazzo che, giovanissimo, studia all’Imperial Regia Scuola Agraria di San Michele all’Adige e poi prosegue gli studi di enologia a Geisenheim, in Germania, e a Montpellier, in Francia. Durante il periodo in Francia fa quello che oggi chiameremmo uno stage in Champagne. È lì che matura l’intuizione alla base non solo della nostra cantina, ma dell’intero sistema Trentodoc: l’idea che il suo Trentino, pur essendo mille chilometri più a sud, grazie alla montagna e alle forti escursioni termiche fra giorno e notte, sia un territorio ideale per creare bollicine metodo classico di grandissima qualità. All’epoca, anche prodotte fuori dalla regione francese, quelle bollicine potevano ancora chiamarsi “Champagne”.
Nella storia di famiglia un’altra data chiave è il 1952, quando l’azienda di Giulio Ferrari diventa di proprietà di suo nonno Bruno Lunelli. Com’è avvenuto il passaggio?
«Mio nonno Bruno era un commerciante di vini. Aveva iniziato come garzone nel negozio della famiglia di Cesare Battisti, il celebre irredentista trentino, e dal 1927 aveva aperto l’Enoteca Lunelli, il punto di riferimento a Trento per il vino. Era cliente di Giulio Ferrari, che non aveva figli: arrivato a un’età avanzata, si pose il problema della successione. Il nonno aveva molti punti di forza: era trentino, nel 1952 aveva già cinque figli, era estremamente competente nel mondo del vino. Quello che gli mancava era il capitale per fare un investimento così importante. Da qui le cambiali: i miei zii raccontano ancora la sera in cui tornò a casa dicendo di aver acquistato le cantine Ferrari, dopo aver firmato una mole importante di cambiali. In pochi anni, grazie al lavoro e alla collaborazione tra Giulio Ferrari, rigorosissimo sulla qualità, e il nonno, con forte spirito imprenditoriale, il debito fu estinto e l’azienda crebbe molto, senza mai scendere a compromessi sulla qualità».
All’epoca si producevano poco meno di 9.000 bottiglie. Oggi sono milioni. Quanto ha contato la comunicazione in questa crescita?
«Siamo stati antesignani nel capire che si poteva fare comunicazione nel mondo del vino senza che questo andasse a discapito della qualità. Oltre al passaparola legato al prodotto, c’è stato il fatto che le nostre bottiglie sono state scelte per eventi importanti, e noi abbiamo saputo dar loro risonanza: penso al brindisi in campo al Santiago Bernabeu, nell’82, dopo la vittoria dell’Italia ai Mondiali, o al presidente Pertini che si chiede perché un presidente della Repubblica italiana debba accogliere i suoi ospiti con lo Champagne in un Paese che produce ottime bollicine, e sceglie Ferrari come brindisi del Quirinale».
In famiglia si racconta anche di un nonno sul campanile che lanciava volantini…
«Sì, è vero. Il nonno è stato molto creativo fin dagli inizi. Una delle sue prime “campagne” di comunicazione, negli anni ’30, fu salire sulla torre di Piazza Duomo a Trento e lasciare cadere dei volantini che pubblicizzavano la sua enoteca proprio all’uscita della messa principale della domenica.
Ci sono stati anche momenti difficili?
«Uno dei più difficili risale al 1967. Ci fu un grande scandalo di contraffazione del vino da parte di un’azienda di Dosimo, in provincia di Cremona, che si chiamava Ferrari. All’epoca i marchi non erano tutelati come oggi. Questi vini “Ferrari” – che non avevano nulla a che vedere con noi – finirono al centro di un caso giudiziario con grande eco mediatica. In famiglia ci si chiese se cambiare la ragione sociale da Ferrari a Lunelli, tanto era il discredito che ricadeva sul nome “Ferrari”. Alla fine si scelse di mantenere il marchio, che era già forte e sinonimo di qualità, e addirittura di aumentare la dimensione della scritta “Ferrari” in etichetta per distinguere con chiarezza Ferrari Trento dalla Ferrari di Dosimo. La storia ha dato ragione a questa scelta».
In questi anni ha incontrato tante persone e contesti diversi: c’è un aneddoto che le è rimasto nel cuore?
«Ne avrei molti. Penso alla serata fantastica al party di Elton John in occasione degli Oscar, dove sono andata con mio cugino Matteo, o agli Emmy Awards, di cui siamo stati brindisi ufficiale per diversi anni. Anche Villa Margon ha vissuto momenti speciali: un vertice tra il primo ministro italiano e quello francese, e una cena in onore del presidente Ciampi in cui ci siamo molto spaventati. Era agosto, faceva molto caldo, lui aveva avuto una giornata pesante e, a un certo punto, ha avuto un leggero malore. Accompagnato dalla signora Franca si è accomodato sul letto nella stanza accanto. Per fortuna non era nulla di grave. Il giorno dopo, alla stampa che gli chiedeva dell’episodio, ha risposto che non era nulla, che voleva solo sdraiarsi sul letto che era stato dell’imperatore Carlo V prima di lui. Una battuta che racconta benissimo la sua grandezza».
Domanda d’obbligo: essere donna in un mondo, quello del vino, storicamente maschile è stato più difficile? Si è sentita di dover dimostrare di più?
«Sarebbe bello che questa domanda non fosse più necessaria, ma oggi è ancora doverosa. Il tema del genere nel vino – come in quasi tutti i settori – non è risolto. La percentuale di donne, soprattutto in posizioni dirigenziali, è bassa ovunque. Nel vino, più o meno il 30 per cento delle cantine è a guida femminile: un numero non pessimo, ma finché non sarà il 50 per cento non possiamo dirci soddisfatti. Se poi andiamo a vedere, le cantine guidate da donne sono spesso realtà più piccole. Il bicchiere mezzo pieno è che, in media, sono molto attente alla qualità e alla sostenibilità. Io personalmente non mi sono mai sentita discriminata, ma sicuramente ho messo tanto impegno in quello che facevo per dimostrare di essere all’altezza».
C’è poi il tema del bilanciamento vita–lavoro, che spesso pesa ancora soprattutto sulle donne. Lei ha tre figli: com’è andata?
«Io ho una grandissima fortuna: ho condiviso il progetto di creare una famiglia con mio marito Stefano, che è più che presente. Dividiamo in maniera davvero equa il carico della gestione familiare, in particolare tutto ciò che riguarda i figli. Se devo essere onesta, lui fa anche qualcosa più di me, perché il mio è un lavoro che richiede moltissimo tempo: viaggi, spostamenti, cene, tanti impegni belli ma impegnativi. Mi sento privilegiata. Resta il fatto che, in generale, il lavoro di cura della famiglia ricade ancora in modo prevalente sulle donne. In azienda stiamo cominciando ad affrontare il tema: stiamo facendo l’assessment per ottenere la certificazione di genere UNI/PdR 125. È solo un inizio, ma è importante che ci sia attenzione anche a livello aziendale».
Le faccio le ultime tre domande. La prima: litigate mai con i cugini, con suo fratello?
«Assolutamente sì. Sarebbe poco sano non avere momenti di confronto. In una famiglia i toni talvolta sono più accesi che tra semplici colleghi. L’importante è che la stima reciproca e l’affetto prevalgano sulle singole questioni: un accordo si trova sempre. Paradossalmente litighiamo più spesso su cose non particolarmente significative. Sulle scelte di fondo siamo sempre stati molto allineati».
La seconda: che cosa le fa davvero paura?
«Quello che mi terrorizza, come credo qualsiasi mamma e qualsiasi genitore, è che possa accadere qualcosa a uno dei miei figli».
La terza: un sogno, un obiettivo che le piacerebbe ancora realizzare?
«Mi piacerebbe che, fra cinquant’anni, chi si troverà al mio posto potesse ancora scegliere “eccellenza” come parola ispiratrice per raccontare il nostro gruppo e il nostro lavoro».
27 dicembre 2025
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