C’è qualcosa di magico, eppure affilatissimo, nel modo in cui Lucio Corsi si è preso l’estate italiana. Nessuna strategia di marketing, nessun colpo di teatro studiato a tavolino: solo il potere ipnotico di una visione. L’estate 2025 sarà ricordata come la stagione in cui un ragazzo di Castiglione della Pescaia, con l’aria da personaggio di un sogno felliniano e la voce densa di storie e vento toscano, ha scalato a mani nude l’immaginario collettivo. Ha cominciato al Festival di Sanremo, ha continuato con un disco vendutissimi, poi l’Eurovision Song Contest ed ora i concerti con il sold out puntuale come un orologio svizzero. 

Lucio Corsi al concertone del Primo Maggio a Roma (Foto LaPresse)

A Sanremo, Lucio non ha semplicemente partecipato. Ha sfondato la quarta parete dell’Ariston con Volevo essere un duro, un brano che sembrava scritto con una lametta e poi immerso nel miele. Una canzone che ha fatto breccia non perché gridasse più forte, ma perché sussurrava più vero. La sua seconda posizione finale – a un soffio da Olly – è stata una formalità. La vera vittoria è stata la sensazione, diffusa e limpida, che qualcosa di autentico fosse finalmente passato su quel palco. Il premio della critica Mia Martini è stato solo il timbro in calce a un verdetto già sancito dai cuori: Lucio era il migliore. E lo era anche quando, nella serata delle cover, ha duettato con Topo Gigio in Nel blu dipinto di blu, come se il confine tra pop e infanzia, tra cultura alta e memoria televisiva, non esistesse più. 


Mentre l’Italia ancora dibatteva se premiare il coraggio o la moda, è arrivato il colpo di scena: Olly, fresco vincitore, ha rinunciato all’Eurovision. Ed è toccato a Lucio, l’outsider, l’uomo che non voleva vincere ma soltanto raccontare, rappresentare il Paese all’evento musicale più visto d’Europa. Da lì in poi, la traiettoria si è fatta verticale. A Basilea, in Svizzera, Lucio ha incantato pubblico e giurie, portando sul palco non solo la sua voce, ma anche il suono live dell’armonica – un gesto rarissimo, quasi sacrilego, in un contest dominato dal playback strumentale. Quinto posto in classifica finale, applausi in tutte le lingue e l’ennesima conferma: Corsi non è uno che passa, è uno che resta. Il disco Volevo essere un duro è un concept raffinato e selvatico, una raccolta di visioni tra folk, glam, psichedelia e favole suburbane. È un lavoro che non cerca l’approvazione, ma la comunione. E che trova, nella semplicità disarmante del linguaggio, la sua arma più affilata. La critica l’ha accolto con ovazioni e due Targhe Tenco: miglior album e miglior canzone dell’anno. Poco da aggiungere.

E poi il tour. Un’epopea estiva che ha attraversato l’Italia da nord a sud, raccogliendo sold out a ogni tappa. Non concerti, ma piccoli riti collettivi. Nei parchi urbani e nelle arene all’aperto, nei festival di confine come, Lucio è salito sul palco con la stessa grazia di chi entra in punta di piedi in casa d’altri. Ma poi ha acceso i fuochi. Canzoni come Freccia Bianca, Cosa faremo da grandi, Trieste, sono diventate cori da stadio con l’anima da poesia. Lucio Corsi è uno di quei pochi artisti capaci di far sembrare tutto – anche un concerto – un atto poetico e irripetibile. 

Lucio Corsi e Tommaso Ottomano alla finale dell’Eurovision Song Contest

Lui, dal canto suo, continua a schivare la retorica da star. “Ci ho messo dodici anni per salire su quel palco”, ha detto a più riprese. “Ci vuole tempo per fare le cose. Io ho sempre avuto bisogno di capire chi ero prima di cantarlo.” E forse è questo il segreto della sua forza: non cerca di convincerti di nulla, ma riesce a farti credere in qualcosa. Anche solo per la durata di una canzone. 


Lucio Corsi in uno dei suoi concerti da sold out

Infine la serata tra il sogno e il surreale. Sotto un cielo aperto in mezzo alle rovine millenarie dell’Abbazia di San Galgano, a Chiusdino, in provincia di Siena. L’artista ha confessato: “Erano anni che sognavo di suonare a San Galgano, è un luogo magico”. Non una tappa qualunque, ma di un rito. Quella sera l’arena sacra senza tetto ha accolto un pubblico completamente travolto, trasformando l’evento in un’esperienza condivisa e quasi spirituale. Corsi ha cantato tra colonne secolari, musica che si confondeva con il vento e il silenzio delle pietre: la sua voce, le chitarre, l’armonica, in una scaletta pensata apposta per l’occasione, hanno svolto la funzione di incanto.

Una serata sospesa fra passato e presente, che ha confermato il suo legame profondo con la Toscana e la sua capacità di rendere sacro il gesto di suonare. Nell’estate dei tormentoni e degli algoritmi, Lucio Corsi ha fatto qualcosa di raro e profondamente umano: ha raccontato sé stesso. Le paure, le fragilità, le gioie e le speranze. E l’Italia, incredibilmente, l’ha ascoltato.