“Radice”, in dialetto piemontese, ma anche ”Origine” o “Causa” in altri dizionari dialettali, Radis è il nome di un progetto che sin dal suo significato etimologico dichiara con molta precisione i sui scopi: strutturare dei dialoghi indissolubili con un territorio – esattamente come quello che ogni albero stabilisce con il proprio terreno attraverso le sue radici – ma anche con la stessa memoria di una comunità, appunto, con le sue origini culturali. In questo caso specifico, il contesto territoriale e gli abitanti sono quelli piemontesi e a dare vita a questi “scambi”, profondi e a lungo termine, una tra le più importanti fondazioni bancarie d’Italia; la Fondazione CRT, nata nel 1991 e terza per entità patrimoniale nel nostro paese che, ad oggi, rivendica un attivo di circa 2 miliardi di euro erogati per oltre 45.000 progetti per l’arte, la ricerca, la formazione, il welfare, l’ambiente e l’innovazione nel Nord Ovest. Promossa dal ramo art oriented dell’ente omonimo (oggi sotto la presidenza di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo) e dalla durata quadriennale, dal 2024 al 2027, Radis è un programma che parte dall’arte contemporanea ma che, attraverso un percorso di coinvolgimento collettivo – con abitanti, enti locali e associazioni – ma anche con grande attenzione e sensibilità verso il paesaggio, si espande in percorsi multidirezionali investendo campi nobili come quello della rigenerazione urbana, ambientale ed anche della sostenibilità.
Portrait of Petrit Halilaj in the Metropolitan Museum of Art Roof Garden installation, New York, USA
Diretto dalla curatrice Marta Papini e sin dalla sua nascita sostenuto anche dalla la Fondazione CRC/Cassa di Risparmio di Cuneo, inaugura la sua prima iniziativa nel 2024 con “Le Masche” dell’artista Giulia Cenci, opera appositamente commissionata per l’area boschiva del Chiot Rosa a Rittana, in provincia di Cuneo; un’operazione scultorea permanente – nata dall’unione tra dei calchi di betulla ed alcuni elementi tipici del suo linguaggio – che ha dato vita a delle nuove entità ibride, a metà tra alberi ed esseri viventi, perfettamente integrate tra i fusti arborei e la vegetazione della radura. A un anno da questo primo capitolo, che a questo lavoro univa anche una serie di attività collaterali, Radis si sposta nel territorio di Dogliani, ed esattamente in un preciso punto della Borgata Valdibà. Tra questi declivi collinari nel cuore delle Langhe, nei pressi della Chiesa di San Bartolomeo, un edifico accoglieva una scuola destinata ai bambini di quelle frazioni limitrofe; attiva fino agli anni ’60 e oggi inagibile, questa struttura fortemente significativa per la comunità locale è il pretesto per poter avviare questa seconda, nuova, esperienza con l’intento di conservarne il ricordo, ma soprattutto il valore territoriale, trasformandola in una forma alternativa di coesione sociale.
Veduta del territorio di Dogliani
Una missione che la curatrice decide di affidare ad uno degli artisti contemporanei under 40 più attivi e riconosciuti del panorama internazionale, Petrit Halilaj (1986, Kostërrc, Kosovo), particolarmente sensibile a questa tematica. È il 2010, infatti, quando lo stesso Halilaj torna nel villaggio di Runik, in Kosovo, per scoprire che la sua ex scuola elementare è destinata ad essere demolita; un evento che lo colpisce e lo spinge ad addentrarsi per l’ultima volta dentro quello spazio, per filmarlo e fotografarlo, concentrandosi con particolare attenzione sulle centinaia di graffiti e scarabocchi disegnati dai bambini sui banchi e sui muri durante tutti quegli anni di attività. A colpirlo il loro linguaggio segnico “in codice” – tramite il quale i bambini, senza premeditazione alcuna, sintetizzano parti del proprio vissuto ed emozioni personali – che ci risulta criptico e intellegibile, talvolta anche violento e irriverente per la sua iconologia. Una raccolta di immagini che, sin dal 2015, l’artista trasforma in una delle sue opere itineranti più importanti del suo percorso artistico: “ABETARE” (titolo desunto dal nome dell’abecedario su cui i bambini studiano la lingua albanese ma anche assonante al termine italiano ”Abitare”); il risultato è la traduzione di questi documenti dalla bidimensione alla tridimensione – con tutta la difficoltà interpretativa e strutturale che ciò comporta – in quelle che potremmo chiamare delle “sculture calligrafiche”, spesso anche ingigantite a scale monumentali come successo in luoghi come la Kölnischer Kunstverein di Cologne o il rooftop del MET di New York.
Installation view, Abetare, 2024, Roof Garden Commission, Metropolitan Museum of Art, New York, USA
La scuola della Borgata Valdibà, unita da un destino simile a quella di Runik (sebbene con le loro storie e i loro contesti geopolitici fortemente differenti), è quindi il luogo ideale dove poter far prendere forma ad una nuova tappa di questa serie, ma con l’aggiunta di una variante inedita: per la prima volta ai disegni provenienti dai Balcani si uniranno anche quelli trovati proprio in questo edificio scolastico, creando in primo luogo un ideale incontro tra culture differenti ma soprattutto rendendo questo intervento artistico concretamente inscindibile da quella specifica realtà del cuneese. Sul quello stesso terreno, il 5 ottobre 2025 si ergerà una rinnovata costruzione firmata Halilaj, ma questa volta stilizzata e senza muri, “abitata”, al suo interno, non più da studenti ma dalle trasposizioni scultoree in bronzo e acciaio desunte proprio da quei graffiti adolescenziali; una raffinata operazione di stampo socio-antropologico che, su altri livelli di lettura, mira anche a mettere in discussione la presunta purezza originaria dell’infanzia e a rivalutare la grande capacità di comprensione da parte dei bambini.
Marta Papini, curatrice del progetto Radis
Ad articolare la centralità di questa nuova scultura pubblica, come avvenuto l’anno precedente, tantissime altre attività satellitari; è il caso di “Tutto ciò che tocchi cambia. Tutto ciò che cambi, ti cambia” a cura della stessa Papini e allestita presso la Chiesetta del Ritiro della Sacra Famiglia di Dogliani – che accoglierà̀ opere dalle collezioni della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT e della Fondazione CRC, di artisti quali Marina Abramović, Sol Calero, Chiara Camoni, Bracha L. Ettinger, Dorothy Iannone e Nolan Oswald Dennis – e un Public Program strutturato da giugno a ottobre che comprenderà una nuova edizione di Supercondominio (l’annuale incontro tra giovani operatori culturali nel campo dell’arte contemporanea) e un programma di valorizzazione delle opere di arte pubblica nella provincia di Cuneo, con un focus specifico sul progetto “A Cielo Aperto” di Fondazione CRC. Collateralmente a tutto ciò anche un importante, programma educativo per le scuole – curato da Feliz e in collaborazione con l’associazione La Scatola Gialla – che comprenderà dei cicli di incontri, dei percorsi di accompagnamento tra le opere nonché un’attività̀ di formazione sull’arte pubblica per gli insegnanti.
Abbiamo posto alcune domande all’artista Petrit Halilaj, dalle quali poter comprendere, ancora con maggiore dettaglio, la genesi e alcuni aspetti di questo suo nuovo lavoro:
“ABETARE” è un lavoro dalla lunga gestazione e dai risvolti espositivi molteplici: sempre in forme e situazioni differenti ha solcato luoghi come la Kölnischer Kunstverein di Cologne, la Fondazione Merz di Torino, la galleria Mennour di Parigi, fino ad approdare al MET di New York, dove è stato presentato nel 2024 nell’ambito della Roof Garden Commission. Ci racconti come è nata quest’ultima commissione insieme alla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, Fondazione Fondazione CRC e sotto la guida curatoriale di Marta Papini.
Marta ed io abbiamo già collaborato in passato, ma mai su questa scala. Attraverso le nostre discussioni, la visita al sito, la comprensione della visione di Marta e del suo rapporto con Valdibà, e con questa scuola che sta per scomparire, siamo giunti in modo naturale al mio progetto Abetare. Le opere di Abetare sono ovviamente radicate anche nell’architettura e si riferiscono a tracce, storie, transitorietà e, ovviamente, alle scuole. Sembrava quindi un connubio perfetto, nonché un modo ideale per ampliarlo. Nella mia mostra più recente all’Istituto Giacometti, l’universo dell’immaginazione e dell’espressione infantile della serie Abetare ha incontrato il mondo creativo di Giacometti, rivelando nuove possibilità e direzioni per il lavoro. Allo stesso modo, questa è stata una splendida occasione per accogliere i mondi immaginari di tutti i bambini che hanno frequentato questa scuola a Borgata Valdibà, e far “giocare” i loro graffiti con quelli dei bambini balcanici che, finora, hanno dato forma alle opere di questo progetto.
I graffiti di cui si è servito in questa nuova fase del progetto sono una miscela tra quelli provenienti dai banchi della sua terra natia e quelli trovati nelle Langhe, esattamente all’interno di questo edificio scolastico parte della Borgata Valdibà, nel territorio di Dogliani, attivo fino agli anni ‘60; bambini di generazioni, storie e luoghi differenti… avendo avuto l’opportunità di paragonare il loro “linguaggio grafico” ha trovato importanti differenze o, al contrario, qualche importante denominatore comune? – parafrasando una frase di Calvino del 1974 – tutto può cambiare tranne la lingua che portiamo dentro di noi sin da bambini?
Da un lato, una differenza molto evidente tra i graffiti sui banchi scolastici del Kosovo e quelli di Borgata Valdibà è il contesto geopolitico. La vita degli scolari del Kosovo e dei Balcani è plasmata da una storia recente molto diversa, da trasformazioni sociali e da cambiamenti ideologici e mediatici. La guerra del Kosovo compare spesso nei graffiti dei banchi provenienti da quel luogo: è parte della storia, della regione e della loro vita. Ma naturalmente i bambini hanno una straordinaria capacità di assorbire e rielaborare queste situazioni con leggerezza, con risate e con irriverenza, ed è proprio questo che amo di questi disegni e, in generale, ciò che mi aspetto da qualsiasi opera d’arte. Ovviamente esistono anche banchi precedenti o successivi alla guerra, e i loro graffiti riflettono questa continuità. Un’altra grande differenza è, come dici tu, generazionale — ad esempio, nessuno dei bambini che ha frequentato la scuola di Valdibà poteva nemmeno immaginare l’esistenza di Internet, e solo l’ultima generazione di studenti ha avuto la possibilità di essere esposta alla televisione. D’altro canto, i bambini ovunque nel mondo hanno una vita interiore e delle ossessioni, e i graffiti sui banchi, sia nei Balcani che in Italia, riflettono questo linguaggio interiore di cui parla Calvino. I loro disegni riflettono la scoperta di sé stessi e la loro elaborazione del mondo che li circonda. Hanno amici, famiglie, case, animali domestici. Le loro menti sono occupate dai loro passatempi e dai media che assorbono. Stanno imparando cose nuove, scoprendo l’amore, il sesso, la ribellione e l’indipendenza. E così hai queste immagini che si ripetono ovunque tu sia: cuori, genitali, oscenità, nomi, animali, case e, soprattutto, scarabocchi che non si riescono a identificare chiaramente. Amo questi momenti astratti: loro esistono sui banchi attraversando generazioni e geografie
Il titolo “ABETARE” richiama l’idea di apprendimento linguistico in lingua albanese ma anche, per assonanza, il verbo italiano abitare. Sul tetto del Metropolitan Museum of Art, grazie al suo progetto, quei graffiti adolescenziali impressi sui banchi, hanno trovato una via di fuga dalle mura di quella tua ex scuola elementare di Runik in Kosovo; uscendo fisicamente da quello spazio e astraendosi completamente verso l’immaterialità del cielo newyorkese. Qui, per il progetto Radis, questi elementi generali permangono ma l’idea di rappresentare una casa stilizzata ci riporta dentro una dimensione più definita, iconica e stabile: un omaggio alla versione italiana del titolo o un’opportunità per ribadire il valore antropologico di apparteneza/casa?
I concetti di “casa” e “appartenenza” hanno generalmente un significato profondo e complesso per tutti noi. Personalmente ho perso due case, ho cambiato scuola e amici tantissime volte e non ho mai avuto una vera stabilità durante la mia infanzia. Ho un carattere generalmente ottimista e quindi, per necessità personale, come strumento di sopravvivenza, ho iniziato ad immaginare che volare e fluttuare senza avere una base stabile fosse in realtà fantastico e mi ha dato un modo particolare di vivere e guardare il mondo. Per me il concetto di casa è un tema ricorrente, che ho espresso più volte sia nel contesto del lavoro Abetare che nella mia produzione artistica in generale. Ad esempio, la mia installazione al Kunst Werke Institute for Contemporary Art, per la sesta Biennale di Berlino nel 2010 (“I luoghi che sto cercando, mia cara, sono luoghi utopici, sono noiosi e non so come renderli reali”), riguardava principalmente la costruzione di una casa di famiglia. Nelle varie version di Abetare le case compaiono ripetutamente, sia in grande che in piccolo formato. C’era una casa enorme nell’installazione Met Rooftop Garden. Il fulcro della mia mostra al Giacometti Institute era un palazzo da sogno, ma era metaforicamente costruito attorno all’idea di casa. Penso che ci sia qualcosa di magico nel disegno di una casa, come se fosse una dedica a tutte le case e una speranza di permanenza. Ma naturalmente, tutti noi e tutte le nostre cose siamo qui solo per un momento, tutto scompare e si trasforma. Questo progetto è costruito a partire da queste storie d’infanzie svanite e di un luogo che presto scomparirà – i sogni di tutti quei bambini invece permangono, sotto forma di un’anatra, un cartone animato, un uccello. Queste incisioni da tavolo troveranno un nuovo posto e un nuovo significato nella nuova casa che sto creando. Quindi il lavoro non riguarda deliberatamente questa coincidenza linguistica tra albanese e italiano, ma è un modo bellissimo per far riflettere le persone su ciò che questo potrebbe significare per loro. Sono molto felice di aver ricevuto questa commissione e spero che possa parlare alle persone che vivono lì.