I film che resistono al tempo non sono quelli che rassicurano, ma quelli che spostano lo sguardo del pubblico e lo costringono a rimettere a fuoco il presente. “Una giusta causa” (titolo originale On the Basis of Sex), ora disponibile su Prime Video, torna a essere un titolo necessario perché ricorda quanto i diritti civili siano fragili e reversibili: basta abbassare la guardia, basta una stagione politica diversa, e ciò che sembrava acquisito ricomincia a traballare.

Non è un caso se il cinema, quando riesce a farsi racconto civile, ha spesso contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica in tutto il mondo: non cambia le leggi da solo, ma cambia le coscienze, e spesso è da lì che nasce ogni svolta.

Diretto da Mimi Leder e scritto da Daniel Stiepleman, “Una giusta causa” è un biopic legale del 2018 (uscito in Italia nel 2019) che sceglie un taglio preciso: raccontare Ruth Bader Ginsburg prima che diventasse una figura simbolo, quando era ancora una giovane donna brillante costretta a farsi spazio in un sistema che le ripeteva, in mille modi diversi, “non sei la benvenuta”.

La trama parte a metà anni Cinquanta: Ruth entra alla Harvard Law School insieme a pochissime altre studentesse, portandosi addosso il doppio carico della famiglia e di un ambiente accademico che la tollera a fatica. La vita si complica quando il marito Martin Ginsburg si ammala: trasferimenti, sacrifici, la necessità di essere madre e, insieme, di non rinunciare alla propria ambizione professionale. Ruth continuerà gli studi e, nonostante risultati eccellenti, si scontrerà con un muro: la discriminazione di genere è strutturale, non episodica.

Il punto di svolta arriva con un caso che sembra piccolo, quasi burocratico: un uomo single non può ottenere una detrazione fiscale legata all’assistenza di un familiare, perché quella norma è pensata “solo” per le donne. Ruth capisce che proprio quel paradosso può far saltare il banco: dimostrare che le leggi discriminatorie non danneggiano soltanto le donne, ma deformano l’idea stessa di equità. È qui che il film diventa davvero interessante, perché mostra la politica nella sua forma più concreta: scritta nei regolamenti, nascosta nei cavilli, normalizzata nella routine.

Nel ruolo di Ruth c’è Felicity Jones, che sceglie una recitazione misurata: niente eroina “da poster”, piuttosto una forza silenziosa che cresce scena dopo scena. Accanto a lei Armie Hammer interpreta Martin con un’energia diversa dal solito: non il marito-ombra, ma un alleato vero, una presenza che sostiene e rilancia. Nel cast spiccano anche Justin Theroux, Sam Waterston e Kathy Bates, volti che danno solidità a un racconto che deve reggere tanto il dramma privato quanto la tensione processuale.

E qui torna il concetto di partenza: film come questo hanno spesso funzionato da acceleratori culturali, rendendo “popolari” temi che altrimenti resterebbero confinati a una nicchia. Philadelphia ha portato al grande pubblico il peso della discriminazione legata all’AIDS; Erin Brockovich ha trasformato una causa ambientale in un racconto di giustizia accessibile a tutti; Selma ha rimesso al centro la lotta per i diritti civili e il prezzo pagato per arrivarci.

Titoli diversi, ma stessa dinamica: quando il cinema racconta bene una battaglia, quella battaglia smette di essere astratta e diventa esperienza condivisa. “Una giusta causa” si inserisce in questa linea con uno stile più classico, ma con un’urgenza che oggi suona ancora più attuale.

Dal punto di vista critico, il film può sembrare “ordinato” nella costruzione, quasi didattico in alcuni passaggi legali, ma la sua efficacia sta nella chiarezza: fa capire quanto il cambiamento non nasca da gesti eclatanti, ma da una costanza quotidiana, da una strategia, da una parola pronunciata nel posto giusto.

E quando lo rivedi oggi su Prime Video, la domanda non è “cosa è successo allora”, ma “cosa sta succedendo adesso”: quanta parte dei nostri diritti civili dipende ancora dalla capacità di riconoscere i segnali e di non normalizzare l’ingiustizia.