Quarantasette anni fa, con Ecce Bombo, Nanni Moretti abbandonava l’autoproclamata autarchia per entrare a pie’ pari nel cinema industriale: lo faceva senza rinunciare a un’oncia della propria poetica e dell’approccio non didattico alla costruzione dell’immagine, cercando le traiettorie giuste per raccontare una generazione già sconfitta, utopista e cinica allo stesso tempo.“Ma come sono fatto male”Il film descrive le giornate di Michele, studente universitario, i suoi rapporti con i genitori e la sorella Valentina, quelli con le ragazze e la sua vita di gruppo. Vediamo lui e i suoi amici discutere del più e del meno ai tavoli di un bar o parlare dai microfoni di una radio privata. Assistiamo alle discussioni suscitate nella famiglia di Michele dalla decisione di Valentina di partecipare all’occupazione di una scuola, alla bizzarra corte che Michele fa alla ragazza di un suo amico, ai tentativi del giovane e dei suoi compagni di aiutare una schizofrenica, Olga, a vincere la sua malattia, a una stravagante sessione d’esami, a sedute collettive di autocoscienza e di autoconfessione. [sinossi]
“Ecce Bombo”, urla a un orario improbabile lo stracciarolo che in bicicletta passa accanto a Michele e al suo gruppo di amici; hanno trascorso la notte svegli solo per poter vedere il sorgere del sole, ma hanno sbagliato direzione e la palla infuocata gli è spuntata alle spalle. Non ha da subito un gran rapporto con il sol dell’avvenire Michele/Nanni, visto che gli sfuggirà anche nel finale di Palombella rossa un decennio più tardi, ma la metafora attraversa l’intera filmografia di Moretti, come testimonia quel Il sol dell’avvenire che è per ora l’ultimo parto creativo del regista romano, in attesa del prossimo Succederà questa notte, con ogni probabilità come da consolidata tradizione in concorso al festival di Cannes. Sempre sulla Croisette approdò nel 1978 Ecce Bombo, prima volta in competizione per Moretti che se la dovette vedere tra gli altri con L’australiano di Jerzy Skolimowski, L’impero della passione di Nagisa Ōshima, Despair di Rainer Werner Fassbinder, Violette Nozière di Claude Chabrol, Tornando a casa di Hal Ashby, El recurso del método di Miguel Littín e – per restare alla componente italiana – Ciao maschio di Marco Ferreri e il trionfatore L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Nessuno, nel cinema italiano, aveva mai deciso di declamare con la nettezza cristallina di Nanni Moretti: il suo Michele Apicella può anche tentennare, come sottolinea in maniera sublime quel passaggio entrato di diritto nella storia dialettica del cinema italiano in cui parlando al telefono con qualcuno il ragazzo (si) chiede “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”, ma non ha alcun timore di mostrare sicumera (“Piccola, perché piangi? Perché sono un grande artista?”), fungendo da ideale capobranco per il gruppo di coetanei con cui si accompagna, sperando di ammazzare quel tempo che procede inesorabile, e che non lascia scampo nemmanco la notte – il padre che nel deliquio onirico canta Anna di Lucio Battisti. Quello che può essere considerato il secondo esordio di Moretti, visto che Io sono un autarchico era stato portato a termine in maniera completamente autonoma, facendosi poi notare grazie al circuito dei cineclub (qui invece si ha a che fare con una produzione in piena regola, del tutto intessuta negli intrecci dell’industria nazionale), contiene già una dichiarazione d’intenti, una sfida tutt’altro che velleitaria al sistema d’immagini in vigore.
Come sarà per l’intera epopea di Apicella, l’alter ego che “morirà” idealmente di ritorno da una trasferta con la squadra di pallanuoto ad Acireale nel succitato Palombella rossa, anche Ecce Bombo si confronta direttamente con il suo tempo, in una dialettica incessante con il contemporaneo, le sue urgenze, le sue distonie, l’abitudine che porta con sé. Se l’ideale cinematografico non può che derivare dall’esperienza flaianian-felliniana de I vitelloni – anche Michele e la sua accolita passano il tempo a bivaccare, cercando un film da andare a vedere, prendendo in giro una povera sconosciuta al telefono, tentando paradossali gruppi di autonalisi collettiva e via discorrendo – la fine degli anni Settanta è un’epoca di totale conflitto, anche in seno alla stessa sinistra. C’è stata una promessa di rivoluzione, solo un decennio prima, che è rimasta lettera morta e il mondo giovanile sta cercando di trovare le coordinate espressive per rivendicare uno spazio che non sa poi forse gestire: Moretti coglie quell’inadeguatezza del vivere attraverso pochi dialoghi (“giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose”), l’illuminante e contraddittorio «Festival della Felicità» in cui ognuno è depresso e disperato, e quell’ultimo inutile tentativo di essere collettivo per andare a trovare Olga, che sta vivendo un momento difficile ma che nessuno – Apicella a parte – raggiungerà perché distratto da qualcos’altro, una balera estiva, una partita a pallone, un cocomeraro. Nel suo grottesco e un po’ dimesso ghigno Ecce Bombo immortala un periodo storico, fungendo in qualche misura da pari e contraltare delle opere coeve di Alberto Grifi, come Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro o Lia – la cui protagonista ricorda molto da vicino la timbrica e l’eloquio dei personaggi morettiani: il regista di Sogni d’oro e Bianca è ancora alla ricerca di un posizionamento allo stesso tempo dentro e fuori dallo schema istituzionale, non s’è fatto megafono di un “popolo” come accadrà nei decenni a venire. C’è ancora un personaggio che funge da schermo del “vero” come Michele Apicella, che non certo a caso morrà proprio a un passo dal crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, quando un nuovo percorso dovrà essere intrapreso, dapprima mettendosi direttamente in gioco – Caro diario e Aprile – quindi cercando rifugio nella narrazione più classicamente intesa, quasi che il personale politico non si possa più trasformare in collettivo.
L’Italia che si intravvede in Ecce Bombo è la pallida eco di qualcosa di realmente esistito e vissuto, e ora ridotto a guscio vuoto, a rituale (anti)sistemico; per questo Michele può prendere in giro l’occupazione del liceo della sorella minore, per questo la preparazione per l’esame di maturità ha lo stesso valore dell’elencazione dei giocatori della nazionale di calcio. Non si è più giovani, si è imparato a “fare il giovane”, a interpretare un ruolo destinato alla società, costruito in un sistema mediatico ottundente, che destina spazi e tempi anche alla supposta controcultura, o a ciò che ne resta. Tutto è falso, sottolinea Moretti, anche nella parte di mondo di cui fa parte lui stesso: se Io sono un autarchico si faceva beffe del teatro sperimentale e dell’indipendenza dei giovani (“Com’è buono il budino di papà!”), Ecce Bombo passa in rassegna un tentativo di liberazione dagli schemi usurati della borghesia che non si rende neanche conto di essere a sua volta un prodotto della medesima società borghese e liberale. Apicella quella consapevolezza ce l’ha, ma a sua volta non sa cosa farsene se non riportando tutto a un egotismo accentratore, in particolar modo per quel che concerne gli affari intimi – e non a caso il film si apre su Michele che va a trovare la fidanzata sul set di un brutto film italiano metà demenziale metà erotico. Come paleserà nel successivo Sogni d’oro, trovandosi da solo di fronte a una telecamera, Moretti vuole urlare disperatamente la propria esistenza al mondo, e se lo fa mascherando il tutto in una cornice da commedia sarcastica non rinuncia a un’introspezione spiazzante, così improvvisa e pura da apparire quasi brutale: si pensi in tal senso alla rappresentazione tutt’altro che banale del personaggio di Olga, l’amica di Mirko che il ragazzo ospita in casa e che soffre di schizofrenia. Nel suo mutismo, nella sua incapacità di comprendere il velleitario comportamento di Mirko e degli altri – è lei ad apostrofarli in modo duro quando li trova impegnati in scherzi telefonici, neanche fossero dei dodicenni –, si cela il pudore di Moretti, così artisticamente rovesciato in gigionismo nel personaggio di Michele ma in realtà in grado di muoversi sottopelle.
È questa pudicizia, questo candore improvviso e in grado di ribaltare le prospettive preordinate ad aver permesso a Ecce Bombo di librarsi al di sopra dei suoi contemporanei per dimostrare che era possibile centrare il punto della questione – la disquisizione sulla tragedia di una nazione in balia del capitalismo più omogeneizzante. E allora aveva con ogni probabilità ragione Mario Monicelli, con cui Moretti si confrontò in una puntata del televisivo Match presentato e moderato da Alberto Arbasino (uscendone “sconfitto”, in un passaggio su cui il regista ragionerà sempre ricorrendo al grottesco in Sogni d’oro, nella disfida tra Apicella e il collega Gigio Cimino), quando suggerì come nonostante la ritrosia dell’altro fosse proprio Moretti il più degno prosecutore della commedia all’italiana. Perché la radiografia acuta della società in grado di tenere insieme comico, patetico e tragico che fu il motore della commedia all’italiana è al centro anche del cinema di Moretti, in particolar modo quello che viene alla luce con Io sono un autarchico e termina con Palombella rossa. Ecce Bombo è un film logorroico, così estenuante nella battuta da aver sfornato un numero impressionante di modi di dire o di freddure utilizzabili nel dialogo quotidiano (qualcuno è stato già citato prima, impossibile non aggiungere almeno “Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?”, “Silvia, non ‘la’ Silvia!”, “Ti volevo dire se ci potevamo vedere per innamorarci di me”, “C’è questo amico mio etiope…”), in cui i personaggi non tengono a freno la lingua per non rendersi conto del vuoto delle rispettive esistenze. Anche il cinema italiano s’è fatto vuoto, suggerisce Moretti, che non perde occasione per mettere alla berlina alcuni cliché della produzione decadente del periodo: ecco dunque l’insofferenza verso i film “nel” nazismo e “sul” nazismo, che Michele sottolinea durante la famosa notte in attesa dell’alba che non verrà mai; ecco quel “Fa molto Fellini, vero? Che bello!”, che racchiude un omaggio e un amorevole sberleffo allo stesso tempo; ecco il già citato finto set di un film che già si prospetta abominevole, ma che tutti girano perché “in fondo è lavoro”. Figlio per l’appunto della commedia all’italiana Moretti cerca con ostinazione una propria via espressiva, e dunque costruisce la sua maschera ideale su di sé, i suoi amici, il suo mondo, la sua Roma – c’è anche qui quel quartiere Prati che tanto spazio troverà nel suo cinema. Se non si può uscire dalla borghesia, con il suo fascino discreto, allora tanto vale accettarne la verità, e non nascondersi più dietro il cinema: anche Michele è come suo padre, anche lui spia la sorella invidiandole un tempo che non ha saputo vivere politicamente, anche lui finirà a cantare nel sonno. O forse in macchina, come ne Il sol dell’avvenire. Quel sole che non è sorto mai, se non alle spalle.
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Ecce Bombo, un trailer.