di
Giuseppe Sarcina
La telefonata con gli alleati per «coprire» le linee differenti
Prima di affrontare Donald Trump, oggi a Mar-a-Lago, Volodymyr Zelensky ha voluto sincerarsi che i principali leader europei appoggiassero il suo piano per la pace. Ieri sera ha organizzato una telefonata collettiva con dieci capi di Stato e di governo, tra i quali il tedesco Friedrich Merz, il francese Emmanuel Macron, il britannico Keir Starmer, Giorgia Meloni, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Zelensky ha ottenuto facilmente ciò che voleva: il sostegno formale degli alleati nel Vecchio Continente, anche se è legittimo dubitare che questa mossa sia in grado di condizionare l’atteggiamento degli americani.
Il presidente ucraino ha fatto sapere che nel faccia a faccia con Trump, il settimo dall’inizio dell’anno, insisterà su «due linee rosse». Primo: il rifiuto di cedere ai russi anche la parte del Donbass controllata dall’esercito ucraino. Secondo: l’indisponibilità a rinunciare alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, occupata con la forza dall’armata putiniana. Su queste due questioni gli europei hanno, come dicono i diplomatici, «sensibilità diverse».
Nelle scorse settimane, la premier italiana, per esempio, avrebbe invitato Zelensky a essere più «flessibile» sui confini del Paese, in cambio di solide garanzie di sicurezza. Altri, come Starmer, restano convinti che la ritirata dell’esercito ucraino sarebbe una concessione inaccettabile, un premio all’invasione voluta da Vladimir Putin. Ma ieri non era il momento di mettere in piazza queste differenze.
APPROFONDISCI CON IL PODCAST
Tanto più che i due consiglieri di Trump, Steve Witkoff e Jared Kushner, hanno in mente una soluzione diversa: il passo indietro degli ucraini nel Donbass servirebbe a liberare un’area cuscinetto da trasformare in una zona franca, una «economic free zone». Ecco perché tutti gli europei hanno convenuto che non era il caso di intralciare questo tentativo. Più semplice, e più logico politicamente, mostrare un fronte compatto alle spalle di Zelensky cui tocca, in ultima istanza, decidere sull’integrità territoriale.
Stesso discorso per il destino di Zaporizhzhia. Ciò che conta, ora, è il «sì» di Trump alle proposte ucraine e, soprattutto, che il consenso della Casa Bianca non si sbricioli davanti al già annunciato «niet» di Mosca. Macron, Merz, Meloni e gli altri, invece, hanno assicurato che parteciperanno al rafforzamento del deterrente militare per evitare future aggressioni russe.
Il perno del confronto resta il meccanismo simile all’articolo 5 della Nato: tutti accorrono in aiuto di un partner aggredito. Un’idea avanzata dal governo Meloni. In parallelo resta viva la proposta franco-britannica: schierare una forza di interposizione in Ucraina, una volta raggiunto il cessate il fuoco. Anche in questo caso, si aspetta l’esito del summit Trump-Zelensky, prima di entrare nel concreto. Quali Paesi sono pronti a inviare soldati? Quale contributo offrirà chi, come l’Italia, è contraria al dispiegamento di truppe?
Il piano di Kiev, infine, prevede un altro passaggio cruciale che chiama in causa le scelte degli europei. Zelensky chiede di fissare una scadenza certa per l’ingresso del suo Paese nell’Unione europea. Il presidente ucraino, saltata l’inclusione nella Nato, vuole stringere i tempi della scalata alla Ue. La commissaria all’Allargamento, Marta Kos, aveva ipotizzato il traguardo del 2030. Gli ucraini spingono per farcela, al più tardi, entro il 2027. In via informale, i rappresentanti di Francia, Italia, Spagna e altri osservano che sarebbe troppo presto.
Lo Stato ucraino deve dimostrare di essere in grado di assorbire le norme Ue, sradicando la corruzione, giusto per dirne una. Inoltre andrebbero riviste in profondità le politiche comunitarie sull’agricoltura e sugli squilibri economici nell’Unione. Serve tempo.
28 dicembre 2025 ( modifica il 28 dicembre 2025 | 09:55)
© RIPRODUZIONE RISERVATA