Non riesco più nemmeno a lavarmi i denti a causa del male alle mani
Federica ha poco più di trent’anni quando il dolore inizia a occupare ogni gesto della sua giornata. Tutto diventa un problema: camminare, lavorare, dormire lavarsi i denti, ma anche stare seduta al lavoro e cucinare. Qualunque gesto quotidiano è un negoziato con il proprio corpo. Nessun segno evidente, nessuna frattura, nessuna ferita visibile. Eppure il dolore c’è. In Piemonte, nella condizione di Federica, si trova circa il 12% dei residenti, convivendo con una malattia reumatologica. Non sono solo anziani, come spesso si pensa: molte sono donne e adulti tra i 20 e i 50 anni, nel pieno della vita lavorativa e familiare. Si tratta di patologie croniche, spesso autoimmuni, vengono chiamate malattie invisibili: invisibili agli occhi, non a chi le vive.
Il tempo che consuma il corpo
«Uno dei problemi più gravi è il tempo che passa prima di ottenere una diagnosi». I sintomi iniziano, ma non trovano subito un nome: dolori articolari, stanchezza estrema, rigidità. Esami che risultano negativi, visite che non portano risposte. Nel sistema pubblico, in Piemonte, per una prima visita reumatologica l’attesa può arrivare fino a 18 mesi. In alcune patologie, come l’artrite psoriasica, la diagnosi arriva anche dopo sei o sette anni. Nel frattempo la malattia avanza, silenziosa, e il corpo cambia», spiega Raffaele Paone, presidente dell’Associazione Ammalati Pazienti Reumatici Autoimmuni.
Il peso di non essere creduti
Per Federica il percorso dura più di un anno. Nessuno riesce a dirle cosa abbia. Poi, un giorno, le si gonfia improvvisamente un dito. «Sembra una puntura, invece è la malattia», spiega. Per ottenere risposte è costretta a rivolgersi anche al privato, pagando visite ed esami: oltre 500 euro solo per dare un nome a quello che sta vivendo. Quando nel 2011 arriva la diagnosi di artrite reumatoide, il sollievo dura poco. Inizia un percorso fatto di tentativi, cambi di terapia ed effetti collaterali pesanti. «Con un farmaco in endovena, dopo mezz’ora ho le gambe gonfie. Mi dicono che il problema è psicologico. Fa più male di tutto questo non essere creduti».
Il presentismo: lavorare con il dolore addosso
Come molte persone con una patologia reumatologica, Federica continua a lavorare. Le viene riconosciuta un’invalidità del 50–55 per cento, una percentuale che nella pratica garantisce poche tutele. Si iscrive alle categorie protette, ma le possibilità sono limitate. «Sono troppo malata per lavorare normalmente, ma non abbastanza per essere davvero tutelata». Molti pazienti vivono una condizione chiamata “presentismo”: sono presenti sul posto di lavoro, ma lavorano nel dolore, con rigidità e stanchezza cronica lottando tra il proprio corpo e la paura di perdere il posto. «Mettersi spesso in malattia significa esporsi al rischio di licenziamento. Resistere significa consumarsi. È una precarietà continua che si somma alla fragilità fisica», continua Federica, spiegando che le liste speciali non le sono mai state utili.
Burocrazia e costi economici
«Questo ha un forte costo, da una parte ti ritrovi a dover investire tanti soldi in visite e dall’altra sei senza tutele remunerative. A tutto questo si aggiunge la burocrazia. «Ottenere l’invalidità civile, la Legge 104 o accedere al collocamento mirato è spesso un percorso lungo e confuso», spiega Raffaele Paone, fatto di percentuali insufficienti, domande respinte e mesi di attesa. Anche quando la diagnosi arriva, le difficoltà non finiscono: le liste d’attesa restano lunghe e molti pazienti si rivolgono al privato per le visite, pur dovendo poi rientrare nel pubblico per accedere ai farmaci biologici.
Curarsi fuori regione: la storia di Francesco
La difficoltà di essere presi in carico emerge anche nella storia di Francesco, raccontata dalla figlia Natascia. «Per anni papà deve andare a Pavia ogni quattro mesi per le terapie biologiche. All’inizio sono sperimentali, oggi sono disponibili anche a Torino, ma riuscire a trasferire la presa in carico è complicato. Ogni passaggio significa nuove visite, impegnative, attese». Francesco inizia il percorso alle Molinette, ma la malattia peggiora rapidamente. «Solo quando scopro l’esistenza di un centro di riferimento a Pavia, all’avanguardia a livello nazionale, riusciamo ad accedere a cure più adeguate».
Farmaci biologici e ostacoli amministrativi
«Il medico di base ci dice che l’artrite non si ferma, si rallenta». Ma per trovare un centro davvero specializzato dobbiamo spostarci fuori regione. «Non so se non siamo stati in grado noi di trovare qualcosa di efficace anche sul territorio locale, sicuramente dobbiamo muoverci da soli». «Anche adesso nessuno ci mette in comunicazione dall’ospedale di Pavia a quello di Collegno. Inoltre le impegnative per il farmaco biologico prodotte a Pavia non sono accettate in Piemonte, devono essere prescritte da un medico operativo in Piemonte. Quindi anche ritirare i farmaci è complicato».
Vivere nel limbo della malattia: controllo e fragilità
Oggi esistono farmaci innovativi che permettono a molte persone di tenere sotto controllo la malattia. Ma la loro gestione richiede tempo, informazioni e accompagnamento. Una diagnosi precoce e una terapia adeguata possono evitare disabilità gravi, perdita del lavoro e isolamento sociale. Possono restituire autonomia e dignità. Dietro ogni numero ci sono persone come Federica che continua ad oggi a compiere ogni gesto quotidiano che molti danno per scontato. Non è poco. Non per chi sa cosa significa non riuscire a farlo. Ma ogni mattina, quando apre il rubinetto, sa che potrebbe ricominciare ad avere difficoltà domani. Perché la malattia non scompare, vive nel suo corpo, è solo rallentata. E stare in questo limbo, tra controllo e fragilità, è il vero dolore che nessuno vede.