di
Massimiliano Jattoni Dall’Asén
A due anni dall’insediamento, il governo Milei ha stabilizzato prezzi e conti pubblici, ma il costo sociale resta elevato. Tagli, «deregolazione» e riforma del lavoro hanno riacceso scioperi e tensioni
A due anni dal giorno dell’insediamento di Javier Milei alla Casa Rosada (era il 10 dicembre 2023), l’Argentina appare come un Paese che ha arrestato la caduta macroeconomica che la distingueva ma ha pagato un prezzo sociale eccezionalmente alto. Fin dal discorso inaugurale, Milei aveva avvertito che il percorso sarebbe stato doloroso: l’aggiustamento fiscale, disse allora, avrebbe comportato recessione e aumento della povertà nel breve periodo: una dichiarazione di metodo più che una promessa politica, un segnale che la priorità del nuovo governo non sarebbe stata la tenuta sociale, ma la credibilità economica.
La promessa dell’aggiustamento: stabilizzare prima, spiegare dopo
La motosierra, da slogan elettorale, si è tradotta così in una politica di tagli rapidi e generalizzati che ha prodotto risultati misurabili su inflazione e deficit, ma ha anche ridisegnato in modo brusco il rapporto tra Stato e cittadini. Come osserva il Financial Times, Milei ha governato come se la stabilizzazione fosse una condizione sufficiente, rinviando la questione della coesione sociale a una fase successiva che, però, tarda ad arrivare.
Inflazione giù, deficit azzerato
L’obiettivo iniziale dell’esecutivo è rimasto coerente per tutto il biennio: spezzare il ciclo deficit–emissione–inflazione che, secondo Milei, aveva reso cronica la crisi argentina. Come hanno spiegato più volte in questi anni gli analisti, il governo ha scelto una terapia d’urto classica: azzeramento del deficit, drastica riduzione dei sussidi, compressione della spesa pubblica e fine del finanziamento monetario. Non a caso, il Financial Times ha osservato come questa strategia abbia collocato Milei più vicino all’ortodossia macroeconomica internazionale che all’immaginario libertario radicale evocato in campagna elettorale.
Una ripresa che arriva dopo la caduta
Sul piano dei risultati, i numeri hanno dato ragione al governo. Almeno nel breve periodo. L’inflazione, che nel 2024 aveva superato il 280% su base annua, è scesa nel corso del 2025. A fine anno l’aumento dei prezzi si attesta intorno al 30% annuo, un livello ancora elevato ma considerato un punto di svolta dopo anni di instabilità estrema. Allo stesso tempo, Buenos Aires ha registrato un avanzo fiscale per la prima volta in oltre un decennio, risultato ottenuto attraverso un taglio senza precedenti della spesa pubblica.
Questa stabilizzazione, tuttavia, è arrivata dopo un 2024 segnato da una recessione profonda. L’economia si è contratta, i consumi sono crollati e solo nel 2025 sono emersi segnali di rimbalzo. L’Ocse prevede ora una crescita sostenuta, superiore al 5%, ma avverte che si tratta di un recupero tecnico dopo una caduta violenta. Come ricordava in questi giorni anche l’Associated Press, per molti argentini, la crescita resta un concetto astratto, poiché i benefici della stabilizzazione non si sono ancora tradotti in un miglioramento tangibile delle condizioni di vita quotidiane.
E’ povero un argentino su 3
Il tema della povertà è forse quello che più di ogni altro mette in discussione la narrazione governativa. Secondo i dati ufficiali, la percentuale di argentini sotto la soglia di povertà ha superato il 50% nella prima metà del 2024, per poi ridursi nel 2025 grazie al rallentamento dell’inflazione: secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (Indec), nel primo semestre di quest’anno è scesa a circa il 31,6%, un livello che rappresenta il dato più basso dal 2018. Ma molti economisti considerano questo calo fragile e in parte statistico: la disinflazione ha fermato l’aumento della povertà, ma non ha ricostruito il potere d’acquisto perso, soprattutto tra lavoratori informali e pensionati.
La vita quotidiana dopo i tagli
È nella vita quotidiana che il costo della «motosierra» appare più evidente. Reuters ha raccontato, in numerosi reportage, come la riduzione dei sussidi su trasporti, energia e servizi pubblici abbia inciso in modo sproporzionato sui redditi medio-bassi. Il Financial Times parla di una stabilizzazione regressiva, che ha favorito chi dispone di risparmi, accesso al dollaro o redditi indicizzati, mentre ha lasciato indietro ampie fasce urbane dipendenti da salari fissi. Anche con l’inflazione in calo, il costo della vita resta percepito come più alto e più incerto.
La riforma del lavoro ha infiammato le piazze
Intanto, il conflitto sociale ha ripreso forza a partire dall’autunno 2025, per poi esplodere nelle ultime settimane di novembre e nei primi giorni di dicembre, in coincidenza con la presentazione in Parlamento del disegno di legge sul lavoro promosso dal governo. È in quel passaggio che la stabilizzazione macroeconomica, fino ad allora raccontata come una necessità tecnica, si è trasformata apertamente in uno scontro politico. La proposta di riforma, che interviene su contratti, tutele e in particolare sul perimetro del diritto di sciopero, ha innescato una sequenza di mobilitazioni culminate in scioperi nazionali di 24 ore e manifestazioni di massa a Buenos Aires e nelle principali città del Paese.
Per giorni, il centro della capitale è rimasto paralizzato, mentre settori strategici come l’agroindustria, i trasporti e i servizi pubblici hanno incrociato le braccia. La protesta, guidata dalle principali confederazioni sindacali, si è saldata a un malessere più ampio: con l’inflazione ormai in forte rallentamento, il conflitto si è spostato dal terreno dei prezzi a quello dei diritti e della distribuzione dei costi dell’aggiustamento. In questo senso, gli scioperi di fine 2025 segnano un passaggio simbolico: non più una reazione all’emergenza inflazionistica, ma una contestazione strutturale del modello sociale implicito nella stabilizzazione perseguita dal governo.
Dalla povertà alla protesta: il costo sociale come detonatore
La ripresa delle proteste non può essere letta come un episodio isolato né come una semplice reazione corporativa. Arriva dopo due anni in cui il costo dell’aggiustamento si è concentrato soprattutto sui redditi fissi, sui lavoratori informali e sui pensionati, mentre la disinflazione — pur reale — non ha ricostruito il potere d’acquisto perso. La riduzione della povertà registrata nel 2025, pur significativa sul piano statistico, convive con una diffusa percezione di insicurezza economica: meno inflazione, ma anche meno protezioni, meno servizi, meno margini di resistenza agli shock. È su questo terreno che la riforma del lavoro ha agito da detonatore. Con i prezzi finalmente sotto controllo, la questione non è più quanto costa vivere, ma chi paga il prezzo della stabilizzazione e per quanto tempo.
Il prossimo biennio: stabilizzare non basterà più
In questo senso, gli scioperi e le manifestazioni di fine 2025 segnano l’ingresso del governo Milei in una fase diversa e più rischiosa. La motosega ha funzionato come strumento di emergenza, ma ora si scontra con un limite politico strutturale: una stabilizzazione che non produce rapidamente un miglioramento visibile delle condizioni di vita tende a erodere il consenso e a radicalizzare il conflitto sociale. Il secondo biennio non si giocherà quindi sui decimali dell’inflazione o sugli equilibri di bilancio, ma sulla capacità — finora tutta da dimostrare — di trasformare la disciplina macroeconomica in un progetto socialmente sostenibile. Se questo passaggio fallirà, il rischio non è il ritorno immediato del caos inflazionistico, ma qualcosa di più tipicamente argentino: una normalità fragile, attraversata da tensioni permanenti, in cui alcuni indicatori migliorano, ma il sistema nel suo insieme resta precario e divisivo.
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29 dicembre 2025 ( modifica il 29 dicembre 2025 | 09:07)
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