Il nuovo film di Noah Baumbach per Netflix è una commedia sofisticata ispirata al cinema di Woody Allen e inscritta in quel filone metalinguistico che Hollywood usa da anni per autopsicanalizzarsi senza grandi pudori, cercando di ritrovare la sua strada maestra come farebbe un uomo di successo piombato in una crisi di mezz’età (praticamente l’identikit del protagonista).

ApprofondisciJay Kelly - Una galleria di immaginiJay Kelly – Una galleria di immagini

Si tratta di un terreno scivoloso da cui pochi autori escono indenni, perché l’autocompiacimento e l’autoindulgenza fanno quasi sempre capolino quando l’industria si guarda troppo allo specchio: succede in Somewhere, di Sofia Coppola, ma anche ne Il ladro di orchidee, di Spike Jonze, cartine da tornasole di un universo troppo concentrato su di sé per ingaggiare un vero dialogo con lo spettatore. Dopotutto, perché dovremmo preoccuparci se una star strapagata si sente un po’ giù di morale, con tutti i problemi di questo mondo?

The dreamcatcher

Secondo Noah Baumbach, in realtà, un motivo ci sarebbe; perché, se Hollywood ha smesso di credere in sé stessa, chi può farsi carico di creare un universo simbolico così potente e universale? Dalla sua prospettiva di autore “semi-indipendente”, per di più al quinto film con Netflix (che finora ha messo solo mezzo piede nel mondo degli studios), forse il regista di Frances Ha riconosce con occhi più clinici di altri la perdita di autorevolezza del cinema americano come fucina di miti.

D’altronde, le candidature ai Golden Globe 2025 raccontano un dominio schiacciante delle produzioni “indie” (curioso il parallelismo con gli ultimi The Game Awards), sotto questo punto di vista, ma il declino del sistema dopo il boom delle piattaforme streaming appare già evidente da anni. Jay Kelly non mette in scena, quindi, una crisi personale né cerca di scavare dentro l’animo dell’artista, bensì raffigura il tramonto di un’intera industria incarnata alla perfezione dal personaggio di George Clooney; per fortuna, con una buona dose di autoironia e leggerezza.


GEORGE CLOONEY NEL SUO RUOLO NATURALE, BRILLANTE E SPACCONE CON QUALCHE VENATURA MALINCONICA.

C’è una scena in cui il protagonista si trova davanti allo specchio e nomina i divi dell’Actors Studio passati e presenti, includendo anche sé stesso… tradotto: l’unico obiettivo di questo star system sembra entrare a far parte del mito, non di crearne uno nuovo. Non serve, quindi, basarsi su esperienze autentiche né trasmettere allo spettatore empatia o umanità; anzi, la realtà conviene evitarla proprio. Jay sembra infatti totalmente incapace di gestire il quotidiano, tanto da trasformare il povero agente – un bravissimo Adam Sandler – in una specie di badante personale.

Niente mimesi, insomma, qui l’arte non imita la vita, semmai avviene l’esatto contrario; così, gli ex compagni di corso vivono nella frustrazione di chi non ce l’ha fatta e si trovano a fare i conti con la vergogna della normalità, mentre lui, per inseguire il successo, ha trascurato tutto il resto. E, quando cerca di ristabilire un rapporto con le figlie, si ritrova ormai fuori tempo massimo.

Video killed the movie stars

Ingaggia allora una ricerca dell’autenticità nel vecchio continente e lontano da Los Angeles, per inseguire tuttavia solo l’ennesima autocelebrazione indulgente; simbolo di una Hollywood bisognosa di conferme fuori dei confini americani, in cui il proprio mito appare forse un po’ meno sbiadito.


L’INTERPRETAZIONE UMANISSIMA DI ADAM SANDLER È tra le COSE MIGLIORi del FILM.

L’avventura di Jay nel bel paese assume di conseguenza uno stile lieve, apparentemente genuino (benché in realtà molto programmatico), quasi amatoriale e sempre piuttosto esile sul piano narrativo, cioè tutte quelle caratteristiche che il pubblico americano attribuisce di solito alle filmografie europee. Per fortuna, la pellicola rifugge l’estetica da cartolina di tante opere ambientate in Italia ed evita accuratamente gli eccessi drammatici del filone “artista a pezzi”, persino durante i flashback dickensiani dove il protagonista rivive i momenti iniziali della propria carriera – quasi tutti all’insegna del cinismo o dell’arrivismo – senza pentirsi mai di nulla.

Perché la strada appare ormai segnata, i vecchi eroi del grande schermo ci stanno abbandonando, ma in fondo non vale la pena di preoccuparsi troppo per loro. Parola di Netflix.

Jay Kelly è disponibile su Netflix.

Jay Kelly è il prodotto di un autore ormai stabilmente al servizio di Netflix, che osserva con un cipiglio un po’ indulgente – e forse una certa dose di soddisfazione – il sistema hollywoodiano tradizionale incamminarsi lungo un inesorabile viale del tramonto, proprio come l’interprete di questa storia: ricco, talentuoso, ammirato, ancora molto richiesto dal pubblico, capisce di aver costruito la sua identità su una menzogna troppo distante dalla realtà e si scopre orfano di motivazioni o di una vera storia da raccontare; e quando cerca di nuovo un contatto con la vita lontana dai riflettori, non sa più nemmeno dove trovarla. A questo gioco di specchi, Noah Baumbach contrappone il tono lieve e volutamente naïf della seconda parte ambientata in Italia, dove il protagonista assaggia la presunta autenticità dello stile (di vita, dell’arte, ovviamente pure del cibo) europeo. Ne risulta un film amorfo quanto il personaggio di George Clooney, concepito per accontentare un po’ tutti con la sua regia sofisticata e allo stesso tempo grezza, semplice ma intellettualistica, introspettiva però povera di slanci emozionali; ricca di malinconia senza un barlume di nostalgia, ironica benché poco divertente. Se tuttavia il nuovo cinema delle piattaforme deve diventare per forza così informe e ruffiano, possiamo tenerci tranquillamente quello vecchio.