Le Feste promettono riposo e consegnano spesso il contrario. Il calendario parla di pausa, ma la mente resta accesa: organizzare pranzi, rispondere ai messaggi, tenere insieme famiglie e aspettative. In questo sovraccarico, il silenzio viene percepito come un vuoto da riempire, non come uno spazio da abitare. È proprio qui, invece, che secondo lo psicologo e coach Richard Romagnoli si nasconde una possibilità concreta di cura.

Nel libro Il silenzio che guarisce (Edizioni Sonda), Romagnoli propone un cambio di prospettiva radicale ma accessibile: non cercare il silenzio assoluto, irraggiungibile, bensì quello possibile, quotidiano, fatto di piccoli intervalli senza stimoli. “Il silenzio non è assenza di rumore, ma presenza”, spiega in un’intervista a Vanity Fair. Viviamo immersi in un flusso continuo di notifiche, informazioni e parole. Secondo Romagnoli, parlare di silenzio oggi è una necessità, non una moda: “Viviamo in un frastuono costante che non si spegne nemmeno di notte, e questo ha un impatto profondo sul nostro benessere”, spiega. “Il silenzio è una necessità biologica: solo quando il cervello smette di essere costantemente stimolato, può rigenerarsi davvero”.

Il problema, sottolinea, è che il silenzio viene spesso associato al vuoto, alla solitudine o alla noia: “Lo temiamo perché lo confondiamo con qualcosa di negativo. In realtà il silenzio autentico è uno spazio fertile. È il luogo in cui possiamo riconnetterci con la parte più vera di noi stessi. Non isola, anzi: ci riporta al centro”. Dal punto di vista scientifico, il silenzio ha effetti misurabili: “Attiva il sistema parasimpatico, quello deputato al riposo e alla rigenerazione”, spiega Romagnoli. Le ricerche mostrano che favorisce la nascita di nuove cellule nell’ippocampo, migliora concentrazione e creatività e riduce il sovraccarico cognitivo. “Se il cervello è sempre in modalità ‘on’, semplicemente non riesce più a recuperare energia”.

Non sorprende, quindi, che molte persone dicano di non riuscire a stare in silenzio nemmeno pochi minuti. Ma per Romagnoli questa difficoltà nasce da un equivoco: “Il punto non è ‘riuscire’ a stare in silenzio, perché altrimenti diventa una performance. Il silenzio non è un atto mentale, è uno stato fisiologico. Non dobbiamo fare nulla, ma semplicemente stare”. Romagnoli chiarisce che non è necessario meditare in modo formale: “Il silenzio può arrivare mentre teniamo una tazza di tisana calda tra le mani, sotto una coperta, accarezzando il cane sul divano. Anche dieci o quindici minuti alla settimana possono fare la differenza, se siamo presenti e osserviamo come quel momento ci fa stare”. In quei momenti, spiega, il corpo rilascia ossitocina e si attiva una sensazione di accoglienza e sicurezza. È qui che entrano in gioco le “abitudini felici”, concetto centrale del libro. “Perché il silenzio diventi parte della nostra vita quotidiana, dobbiamo associarlo a una sensazione di benessere”, dice. “Osservare come ci fa sentire crea una memoria positiva. Non lo facciamo per dovere, ma perché ci fa stare bene”.

Un altro timore diffuso è che, una volta spenti i rumori esterni, la mente diventi ancora più caotica: “Succede perché non siamo in pace dentro”, osserva Romagnoli. “Anche nella stanza più silenziosa del mondo, una camera anecoica, iniziamo a sentire il battito del cuore, il respiro, il flusso del sangue. Se non siamo centrati, la mente produce ancora più pensieri”.

Il silenzio, quindi, non spegne automaticamente il rumore interiore, ma invita ad ascoltarlo. In questo senso Romagnoli parla di “detox mentale”: “Viviamo oltre il limite di tolleranza del nostro cervello. È come un ascensore progettato per sei persone in cui ne entrano quindici: prima o poi va in crash. Il sovraccarico digitale, le cattive notizie, la paura costante ci tengono in uno stato di allerta continuo. Il silenzio ci permette di scaricare questo eccesso e di tornare lucidi”. Anche le relazioni soffrono dell’incapacità di stare nel silenzio: “Spesso riempiamo gli spazi con parole inutili, per paura del vuoto o dell’imbarazzo”, spiega Romagnoli. “Eppure il silenzio può essere un luogo di intimità profonda, di connessione vera”. Non sempre rispondere subito è la scelta migliore: “A volte il silenzio è uno spazio di ascolto, per capire cosa stiamo davvero provando”. Per chiarire questo punto, usa una metafora efficace: “Le parole sono come il dentifricio: una volta uscite dal tubetto, non tornano indietro. Quando reagiamo di impulso, spesso diciamo cose che non avremmo voluto dire. Il silenzio, invece, ci dà il tempo di ritrovare equilibrio e lucidità”.

Nei giorni festivi, quando stress e aspettative si amplificano, il silenzio può essere integrato senza stravolgere la routine. “Partendo da piccoli momenti”, suggerisce Romagnoli. “La doccia, per esempio, può diventare uno spazio di consapevolezza: sentire l’acqua sulla pelle, il respiro, il corpo. Oppure una camminata senza musica, concentrandosi solo sul passo”. Il silenzio, insiste, “non va cercato lontano, è già dentro le pieghe della nostra giornata”.

Anche il significato stesso di vacanza aiuta a cambiare prospettiva: “Vacanza deriva da ‘vacuum’, vuoto”, ricorda. “Dovremmo smettere di averne paura, perché nel vuoto c’è spazio. Spazio per accogliere parti di noi che non ascoltiamo mai”. Il libro si chiude con un invito semplice ma netto, che Romagnoli ribadisce anche nell’intervista: “Il silenzio non è qualcosa da conquistare, ma da permettere. Se terrai il cuore aperto, scoprirai che non è un nemico, ma una fonte di guarigione e di forza”.