«Veniamo da decenni in cui la spiritualità è stata derisa in nome dell’egemonia marxista», dice Gennaro Nunziante – se non avete memoria per i nomi: il regista di “Buen Camino” – in un’intervista, e io sono qui a rassicurarlo: non c’è nessuna egemonia marxista (non c’è neanche nessuna spiritualità, ma a questo ci arriviamo dopo).

Non so se sia mai esistita un’egemonia culturale di sinistra – forse sì, e per fortuna: se a Bologna non ci fosse stata l’egemonia culturale di sinistra, io ora sarei smarrita come certe coetanee la cui adolescenza non è stata plasmata da Francesco Guccini e Nanni Moretti – ma di certo non c’è più.

Per saperlo, basta aprire i giornali o i social, e vedere come trattano gli incassi di “Buen Camino” e la morte di Brigitte Bardot. A entrambi gli accadimenti che debordano dalle pagine degli spettacoli e si fanno riflessione (inadeguata) sul mondo, sovrintende un unico grido, un unico allarme, un unico dramma: eh, ma è di destra.

È tutto un coprirsi di ridicolo. Quelli che ti spiegano che Checco Zalone, col suo scoprire la spiritualità (spoiler: non scopre la spiritualità, cerca solo di compiacere la figlia adolescente, come tutti i genitori della mia generazione, compresi quelli che fanno i giornali), fa andare al cinema quella metà di Italia per cui di solito non si fanno i film. Come se ce ne fosse un’altra metà, come se ci fossero tre milioni e spicci di altri italiani che normalmente vanno al cinema a vedere altri film in un altro weekend.

Quelli che ti spiegano che per forza la gente lo va a vedere, c’è il monopolio, ci sono i contratti con gli esercenti con l’obbligo di tenerlo su tre settimane. Come se i proprietari delle sale cinematografiche abitualmente deserte non vedessero invece l’ora di smontare il film che finalmente li fa incassare come quando esisteva il cinema. Come se la gente arrivasse dicendo vi prego, fatemi vedere un film d’autore, e poi, oppressa dal monopolio ma determinata a trascorrere comunque due ore al cinema, si rassegnasse a vedere Zalone.

Ve lo dico con un disegnino, lo pubblicava domenica il Wall Street Journal in un articolo intitolato all’impossibile lieto fine per quell’attività di modernariato che è il cinema in sala. Il disegnino era uno schema degli incassi totali in sala ogni anno negli Stati Uniti d’America, cioè un posto dove andare al cinema è sì un’attività non più in auge, ma non è certo un’attività dismessa come da noi (siamo pur sempre l’unico paese al mondo che è riuscito a non andare a vedere neanche il seguito di “Top Gun”, cioè il filmone popolare del momento in cui finalmente si tornava al cinema dopo la pandemia: noi al cinema ci andiamo solo se c’è da autoscattarci come ai concerti, quindi solo per “Barbie”, solo per la Cortellesi, solo per Zalone; solo per quel gergo da p.r. milanesi: evento, esperienza, doccia emozionale).

Dice lo schemino che nel 2018 il cinema in sala aveva mosso poco meno di 12 miliardi di dollari nelle sale americane. Il 2025, poco più di otto. La sala va a morire. E, se va a morire lì, figuriamoci qui.

Mentre i critici (e Nunziante: nessuno è più negato degli autori a capire le opere) si baloccano con l’idea che esistano la destra e la sinistra, e che Checco Zalone, con il suo – ohibò – pellegrinaggio, s’inserisca nel primo filone culturale, e mentre altri critici pensano che quei tre milioni di italiani che a digestione non ancora completata lo vanno a vedere nei giorni natalizi ci vadano perché glielo impone il monopolio, sapete cos’è successo?

Chi c’era nel Novecento sa com’è fatto un fenomeno popolare. È quella cosa per cui tu andavi ospite al “Maurizio Costanzo Show” e il giorno dopo tutti – il barista, il panettiere, il parcheggiatore, la collega, la babysitter dei tuoi figli, l’igienista dentale – ti guardavano con sguardo nuovo dicendoti che ti avevano visto. Era quando i mass media erano, appunto, di massa.

Era quando “La piovra” faceva diciassette milioni di spettatori. Costanzo no, Costanzo andava in seconda serata, e faceva più o meno i numeri che “Buen Camino” fa in un weekend: i numeri che definiscono un fenomeno come di massa, i numeri superati i quali puoi dire che t’hanno visto tutti, che ne parlano tutti. La cultura popolare è finita quando abbiamo iniziato a definire successi prime serate da un milione di spettatori.

Adesso i numeri non vogliono più dire niente perché abbiamo disimparato quella cosa che insegnava la sondaggista in “The West Wing”: i numeri mentono. Pensiamo si possano leggere senza contesto: Khaby Lame ha settantotto milioni di follower, facciamogli fare qualcosa, è un successo garantito. Poi gli fai fare un libro e vende tremila copie, perché settantotto milioni non significa niente se non specifichi la valuta. Settantotto milioni di persone che pigiano “segui” su uno di cui hanno sentito parlare, capirai. In confronto il gesto di accendere il televisore e mettere su Canale 5 era impegnativo.

Non è un ragionamento di destra o di sinistra, quello che ti fa sbagliare l’analisi dei numeri: è un ragionamento fesso. Non siamo diventati più di destra (magari, quella è una roba che si risolve): siamo diventati più scemi.

Muore Brigitte Bardot, e la replica della morte di Alain Delon è servita: eh, ma era di destra. Eh, ma era razzista. Eh, ma era omofoba (mai incontrato un busone che non fosse pazzo di Brigitte Bardot: cosa ti sei scelto una sessualità dotata di senso estetico a fare, altrimenti). Quand’è che siamo diventati così scemi da pensare che sia importante condividere ciò che pensano gli attori, gente che veniva sepolta in terra sconsacrata, gente pagata per fare le facce? Avete creduto a Keats e a quella puttanata che la bellezza è verità? È colpa delle facoltà umanistiche?

Ascolto ossessivamente da giorni “History repeating”: Shirley Bassey andava bene per Zalone e va benissimo per la Bardot. «Secondo voi il primo articolo “insuccesso del nuovo Zalone, non arriverà a sessanta milioni d’incasso” per che data possiamo aspettarcelo?» scrivevo su Facebook il 26 dicembre 2019: “Tolo tolo” sarebbe uscito cinque giorni dopo.

Sei natali più tardi, Aldo Cazzullo ha chiesto a Luca Medici, inventore e interprete di Checco Zalone, di commentare la separazione professionale da Pietro Valsecchi, produttore dei suoi film precedenti e leggendario collezionista d’arte. Medici ha risposto: «“Quo vado?” ha incassato 65 milioni. “Tolo Tolo” soltanto 48. C’è un Burri in meno nel salone di Valsecchi. Uno spazio vuoto nella parete. Che dolore». Ho pensato: queste polemiche sempre identiche non sono questione di destra o sinistra, sono questione di soldi.

Poi ho visto lo stralcio dell’intervista riportato da un influencer che forniva al suo pubblico gli elementi necessari per capire una battuta che altrimenti sarebbe stata troppo sofisticata: Alberto Burri era un tizio che faceva quadri. Ho pensato: questo abbassamento del livello non è questione di destra o sinistra, è questione che nessuno sa più un cazzo, e quelle quattro nozioni collettive che sono rimaste avanzano dal Novecento, e per far capire a tutti proprio a tutti quant’è ignorante Checco Zalone devi farne uno che non sa chi sia Ernest Hemingway, perché se non sapesse chi è Jonathan Franzen sarebbe tale e quale al grande pubblico.

Poi è morta la Bardot. E ho visto zelanti trentenni spiegarci che è molto più rappresentativa del cinema francese Juliette Binoche (ma dove siamo, in un film di Zalone?), che della Bardot nessuno aveva mai visto un film (ma dove siamo, nella scena in cui Zalone non sa chi sia Hemingway?), che non si celebra la vita di una fascista. Come se, nella celebrabilità della morte di chicchessia nel 2025, non contasse innanzitutto la fotogenia. Come se ci fosse stata, nella storia del mondo, qualcuna più fotogenica di Brigitte Bardot (forse giusto la Monroe, che ha oltretutto avuto la saggezza di morire prima dell’opinionismo di massa).

Ho pensato tantissimo alla morte di Delon perché erano amici, lui e la Bardot, loro belli e destrorsi, loro belli abbastanza da fottersene dell’essere moralmente giusti; e anche per quella mia amica che, in morte di Alain Delon, mi aveva scritto che era l’ultimo stronzo con stile. Che è una buona definizione anche per BB, evidente modello estetico su cui si sono formate tutte le stronze con stile degli ultimi decenni, da Kate Moss in giù. Comprereste un’ideologia usata, o almeno una sessione di styling, da una stronza con stile?

Non c’è l’egemonia marxista e di sicuro non c’è quella della spiritualità. In compenso c’è l’egemonia dell’opinione perentoria. C’è l’egemonia del credere nelle stronzate ideologiche d’ogni genere, purché dette in tono prescrittivo. C’è l’egemonia del voler scrivere «io» non avendo l’allenamento necessario (Milena Gabanelli, dico a te: ma quel raccontino sulla visita giovanile alla Bardot con un uso dei tempi verbali da ripetere le scuole medie, era proprio necessario?).

Nell’estate del 2000 Harold Bloom, il più importante critico letterario del Novecento, pubblicò sul Wall Street Journal un articolo intitolato “Possono 35 milioni di compratori di libri sbagliarsi? Sì”. Paragonandosi ad Amleto, prendeva le armi contro quel mare di guai rappresentato da chi amava “Harry Potter”. State diventando tutti scemi, diceva Bloom rivolgendosi al New York Times e agli altri lesti a lodare il successo di un libro con, riferiva, sette frasi fatte in una sola pagina. Dubitava che fosse meglio, per i bambini, leggere libri sciatti che non leggere proprio.

Poi è andata come sappiamo, che “Harry Potter” sembra la “Recherche” in confronto alla pornografia che ora chiamano romantasy e che fa sì che le ragazzine leggano invece di guardare YouPorn, e i genitori possano vantarsi d’aver cresciuto lettrici forti. È andata che la critica non la sa più fare nessuno, e siamo rimasti qui, a Bloom defunto, con l’egemonia di quelli la cui unica obiezione di fronte a un successo sgradito è: eh, ma è di destra.

L’egemonia di non capire il mondo specie allorché pagati per farlo, e quindi di stupirsi ogni volta che la gente ritrova un pezzettino di Novecento nel fare ciò che un tempo era normale: aver visto tutti lo stesso film e poterne parlare a cena, «ma quanto fa ridere la battuta sull’11 settembre?»; conoscere tutti lo stesso sex symbol e poter conversare di preferenze, fosse anche solo «meglio le bionde o le more?»: sembra comunque di stare nel Gruppo 63, rispetto alla conversazione media di questo secolo ritardato.