È stato arrestato soltanto sabato scorso, ma è almeno dal 1991 che il leader dell’associazione palestinesi d’Italia Mohammad Hannoun – 64 anni, residente a Genova dal 1983 – è noto alle autorità. Risale a 35 anni fa, infatti, la prima informativa della digos che parlava dei suoi contatti con la quasi neonata Hamas. La circostanza è stata già affrontata due volte dal tribunale del capoluogo ligure(nel 2006 e nel 2010 e in entrambi i casi le inchieste – che, come quest’ultima, partivano dall’assunto che le raccolte solidali servano in realtà a sovvenzionare la lotta armata – sono finite in un nulla di fatto: prima per volere di un giudice e poi su richiesta della stessa procura, che non ritenne di avere abbastanza elementi da portare in giudizio. Adesso però le cose sono cambiate: Hannoun non è più un simpatizzante con i suoi contatti – forse pericolosi, di sicuro conosciuti da decenni – ma il «vertice della cellula italiana» di Hamas.

IL FATTO è che dagli attacchi del 7 ottobre del 2023 è cambiata la considerazione che si ha di molte delle associazioni che operano sulla Striscia di Gaza. Da quella data, infatti, le autorità israeliane hanno inserito nella black list dei gruppi terroristici molte realtà che lavorano nella zona da decenni. Tra cui quelle finite nell’inchiesta cominciata proprio sul finire del 2023 su impulso della Dna e sfociata sabato nell’operazione «Domino» ordinata dalla Dda di Genova: 6 arresti, 25 indagati a piede libero e due ricercati attualmente latitanti.

NEL MARZO del 2006, la posizione di Hannoun viene valutata dal gip Maurizio De Matteis, che respinge una richiesta d’arresto dell’allora sostituto Nicola Piacente (oggi capo della procura di Genova) dicendo che se «dagli atti d’indagine emerge una certa condivisione degli ideali dell’associazione in questione» da parte dell’indagato, hanno «scarsa validità indiziante le frequentazioni e le manifestazioni di simpatia verso Hamas», anche perché «non stupisce che militanti della causa palestinese frequentino esponenti di quello che è il più importante gruppo palestinese». Da tenere presente che siamo all’indomani della vittoria elettorale di Hamas. L’indagine, comunque, oltre alle intercettazioni telefoniche che mostravano la «certa condivisione» di cui sopra, non era riuscita a trovare i «gravi indizi» di un finanziamento diretto alle attività di lotta armata. E parliamo di condotte in tutto e per tutto uguali a quelle che hanno portato al recente blitz giudiziario.

LA GIUDICE Carpanini dedica decine di pagine della sua ordinanza a ricostruire la storia di Hamas per poi concludere che «l’ala politica» e «l’ala militare» sono la stessa cosa e che, dunque, avere a che fare con la prima equivale ad avere a che fare anche con la seconda: per questo non fa niente se i pm non hanno scoperto ordini né piani operativi che colleghino direttamente i fondi sequestrati a gruppi armati o atti violenti. C’entra molto il cambio di paradigma arrivato dopo il 7 ottobre del 2023: Israele ha cominciato a trattare le ong della Striscia (e non solo) alla stregua di organizzazioni terroristiche sfruttando il fatto che lavorare a Gaza significa inevitabilmente avere a che fare con Hamas, che lì controlla in maniera totale le istituzioni. Attuare una qualsiasi forma di cooperazione giudiziaria con Tel Aviv vuol dire accettare questa visione delle cose: i palestinesi – e chi li aiuta – sono tutti terroristi.

È COSÌ CHE, dalla fine del 2023, Hannoun si è visto ad esempio chiudere i propri conti correnti personali (e quelli delle sue associazioni) per decisione degli istituti bancari dove erano ospitati proprio perché ritenuti fonti di approvvigionamento Hamas. Così, ad ogni modo, si spiegano i tanti contanti sequestrati dalla polizia e della guardia di finanza e i frequenti viaggi in Turchia dell’attivista per depositare questi fondi (oltre 8 milioni di euro confiscati in totale).

PER DIRE che le associazioni finite sotto inchiesta insieme ad Hannoun sono legate ad Hamas, la gip fa riferimento a documentazione trasmessa via rogatoria da Tel Aviv per cinque volte tra il 2003 e il 2005 e ad altre carte fornite «spontaneamente dalla competente autorità di Israele il primo luglio e il 21 agosto del 2025». Sono informazioni d’intelligence in cui si sostiene che diverse associazioni ed enti, tra cui quelle citate nell’inchiesta in corso, non siano altro che «hub per il finanziamento di Hamas». E qui torna utile il provvedimento firmato nel gennaio del 2010 dalla pm Francesca Nanni, che nel chiedere l’archiviazione di un fascicolo per terrorismo che coinvolgeva Hannoun, parlò della «difficoltà, in alcuni casi impossibilità, di utilizzazione del materiale trasmesso da Israele, spesso raccolto nel caso di vere e proprie operazioni militari, peraltro senza l’osservanza dei principi fondamentali che regolano l’acquisizione delle prove nel nostro ordinamento». In fondo, in uno stato di diritto non si dovrebbe prendere per oro colato quello che arriva dall’apparato militare di un paese che sta facendo la guerra.

E OGGI HANNOUN è atteso dalla gip di Genova per l’interrogatorio. Non risponderà alle domande – «Non abbiamo ricevuto ancora tutti gli atti depositati», fanno sapere i suoi avvocati Fabio Sommovigo ed Emanuele Tambuscio che ieri lo hanno incontrato nel carcere di Marassi – ma offrirà dichiarazioni spontanee per dire che può dimostrare la destinazione di tutti i fondi raccolti negli anni e destinate sempre a strutture civili e mai a quelle militari. La documentazione al riguardo, però, sarebbe già stata sequestrata e dunque, per paradosso, è a disposizione degli inquirenti ma non dei difensori.

DIFFICILE, vista la natura delle accuse, che cambierà qualcosa dal punto di vista della misura cautelare. La vera partita su questo si giocherà al tribunale del riesame, non prima della fine di gennaio.