di
Aldo Cazzullo e Carlos Passerini
Il centrocampista del Milan si racconta: «Sono in Italia per vincere. Mourinho l’allenatore più duro, una volta fece piangere Cristiano Ronaldo negli spogliatoi. Ho conosciuto mia moglie nel 2004, non ci siamo più lasciati»
Luka Modric — sei Champions, Pallone d’Oro, miglior giocatore del Mondiale 2018, 194 partite con la Nazionale croata — è il calciatore più longevo del nostro campionato; eppure non sembra un calciatore. Piccolo, minuto, modesto, riservato, gentilissimo con tutti, e neppure un tatuaggio. Un genio umile. Parliamo in spagnolo, lingua che Luka padroneggia perfettamente, come l’inglese. Sta imparando l’italiano, «ma a volte lo confondo con lo spagnolo, e non mi piace commettere errori. Sono della Vergine. Perfezionista. I miei figli sono più avanti di me con la lingua».
Luka, è vero che da piccolo era milanista?
«È vero. Ero milanista per via dell’eroe della mia infanzia: Zvonimir Boban, capitano della Croazia che sfiorò l’impresa al Mondiale di Francia del 1998».
La Croazia subì un torto clamoroso: in semifinale Thuram segnò il gol del pareggio dopo aver commesso un fallo evidente.
«Per noi fu comunque qualcosa di incredibile. Un Paese piccolo, che usciva da una guerra devastante, si affacciava sul mondo. Tutti ci sentivamo molto orgogliosi. Non avevo ancora tredici anni, e mio papà mi regalò la tuta del Milan».
Ed eccola qua, a Milanello.
«La vita ti sorprende sempre. Succedono cose che non avresti mai creduto possibili. Ero convinto di chiudere la carriera nel Real Madrid, invece… Questo però l’ho sempre pensato: se avessi mai avuto un’altra squadra, sarebbe stata il Milan. Sono qui per vincere».
Lo scudetto è possibile?
«Al Milan si deve giocare sempre per vincere, solo per vincere».
Già quest’anno?
«E’ possibile. Ma è lunga. Nel calcio devi pensare partita per partita. Se cominci a programmare a distanza di mesi, ti perdi».
Qual è il segreto della longevità sportiva? Come si fa a giocare al suo livello a quarant’anni?
«L’amore. Amare il calcio, pensare calcio, vivere per il calcio. Il calcio, con la famiglia, è la cosa più importante che ho. Il segreto è la passione. La dieta, l’allenamento sono cose secondarie. Per restare in alto a lungo serve il cuore. Io agli allenamenti sono felice come quando giocavo da bambino».
Ma il segreto di Modric non è tutto qui. Lei è uno dei più grandi calciatori in attività, ma sembra una persona normale.
«Appunto. Amo la normalità. La famiglia normale, la vita normale, le piccole cose. Non mi sento unico. Nella mia vita non ho mai pensato, neppure per un secondo, di essere superiore a qualcun altro. Se non avessi fatto il calciatore, mi sarebbe piaciuto fare il cameriere».
Il cameriere?
«Ero bravino. E mi piaceva. Ho studiato all’istituto alberghiero di Borik. Il primo anno facevamo pratica al ristorante Marina di Zara, dove si tenevano i pranzi di nozze. Me la cavavo a servire le bevande; e ai pranzi di nozze croati si beve parecchio. L’unica cosa che non mi piaceva era lavare i piatti».
La sua però non è una storia normale.
«Non è stata una storia facile, ma i miei genitori Stipe e Radojka mi hanno dato valori importanti: rispettare tutti, restare umile. Papà operaio, mamma sarta. L’umiltà aiuta, in campo come nella vita. Anche mio zio Zeljko è stato fondamentale per me. Lui e papà sono gemelli omozigoti, sono cresciuti in simbiosi, si sentono dieci volte al giorno, e siccome lo zio non ha figli abbiamo un legame speciale».
Anche nonno Luka è stato importante per lei.
«Porto il suo nome con orgoglio. Da piccolo non sono andato all’asilo, piangevo sempre, così mi hanno portato nella sua “casa alta”, ai piedi del monte Velebit, in Dalmazia. Era la casa dei cantonieri: il nonno aveva la manutenzione della strada. Distava una mezz’ora a piedi dalla “casa bassa” dove abitavano i miei genitori. Il nonno mi ha insegnato a spalare la neve, ad accatastare il fieno, a portare il gregge al pascolo. Sono cresciuto con gli animali, mi divertivo a tirare la coda alle caprette, credo di aver imparato a giocare a calcio lì, fra le pecore e le pietre».
Suo nonno fu assassinato dai cetnici serbi.
«Non amo parlare di questo. State riaprendo una ferita terribile».
Ci dispiace.
(Luka Modric resta un attimo in silenzio. Poi riprende a raccontare). Era il dicembre del 1991, avevo sei anni. Una sera il nonno non tornò a casa. Andarono a cercarlo. Gli avevano sparato in un prato ai margini della strada. Aveva sessantasei anni. Non aveva fatto nulla di male a nessuno. Ricordo il funerale. Papà che mi porta davanti alla bara e mi dice: “Figlio mio, da’ un bacio al nonno”. Ancora oggi mi chiedo: come si fa a uccidere un uomo buono, un uomo giusto? Perché?».
Perché lo uccisero?
«Perché era la guerra. Mio padre partì volontario. Noi dovemmo lasciare tutto, da un giorno all’altro. Amici, affetti, cose. Ci rifugiammo prima a Makarska, nel campo profughi dell’orfanotrofio. Poi a Zara».
Hotel Kolovare, l’inizio di una nuova vita.
«Ci diedero una stanza al piano terra: papà, quando c’era, mamma, mia sorella Jasmina e io dormivamo in un unico letto. Fuori, nel parcheggio dell’albergo, giocavamo a pallone da mattina a sera. Io correvo con la tuta del Milan, sognando di diventare un giorno calciatore. Anche le scarpette erano di una marca italiana».
Ancora se le ricorda?
«Nere e verdi, più grandi di un numero. Le più belle della mia vita».
Che vita era?
«Dico la verità: non fosse stato per le granate, che erano frequenti e ci costringevano a scappare nei rifugi sotterranei quando suonava l’allarme, posso dire che fu un’infanzia normale. O forse normalizzata, nel senso che il pallone ci aiutava a vivere la vita come sarebbe giusto viverla, a quell’età. Eravamo tanti bambini, ma si giocava anche contro gli adulti: lì ho imparato che sul campo nessuno ti regala niente. Quegli anni mi hanno reso quello che sono».
Oggi le guerre non sono finite.
«Una follia. Non capivo quella di allora, non capisco quelle di oggi. La vita è meravigliosa. La guerra rovina tutto, senza ragione».
La Croazia ha meno di quattro milioni di abitanti. Eppure eccelle nello sport, a cominciare dal calcio. In Russia nel 2018 e in Qatar nel 2022 l’Italia neppure c’era, voi siete arrivati secondi e terzi. Qual è il segreto?
«La mentalità. Saper soffrire, non arrendersi mai. Ci hanno insegnato che per ottenere qualcosa devi combattere. E poi devi difenderla. Il talento conta, ma non basta. Credo che l’esperienza della guerra abbia inciso, sotto questo aspetto, su tutta la mia generazione».
Il calcio italiano invece è in enorme difficoltà. È la mentalità che manca?
«Forse sì. Ma spero di rivedervi al Mondiale. Io sono cresciuto con il mito del calcio italiano».
In molti rivedono in lei Pirlo.
«Li ringrazio, il paragone mi onora: Pirlo ha sei anni più di me, ha aperto una strada. Ma il mio idolo, Boban a parte, era Francesco Totti. In serie A avevate calciatori favolosi. Li guardavo e mi dicevo: quello è il calcio che voglio giocare».
L’Italia si qualificherà per il Mondiale americano?
«Non è facile, gli spareggi sono due partite secche, prima con l’Irlanda del Nord e poi in caso di vittoria Galles o Bosnia. Ma ho fiducia». (Dalla porta alle spalle di Modric sbuca Max Allegri, e sorridendo abbraccia il suo campione: «Mi raccomando, ascoltate bene il maestro: ha sempre ragione»).
Che rapporto ha con Allegri?
«Finché non esce dalla stanza non posso dirvi niente! A parte gli scherzi, ha una personalità incredibile. Somiglia un po’ ad Ancelotti: sensibile, divertente, ama fare scherzi. Ma sul campo, come tecnico, è un grandissimo. Sa di calcio come pochi. Non lo conoscevo così bene, ma sono felice che oggi sia il mio allenatore».
Appunto, Ancelotti?
«Carlo è il numero uno. Difficile trovare parole. Per il suo modo di essere, non solo per le sue qualità in panchina. Abbiamo parlato tante volte di Milano e del Milan, quando eravamo a Madrid. Anche per lui questo posto era unico. Ricordo quando lo conobbi. Io ero solo in città. Lui mi telefonò e mi disse: «Su, vieni a cena con me». Parlammo per ore, di tutto. Di calcio, della famiglia, della vita. Di solito gli allenatori non danno confidenza ai giocatori. Lui sì».
Mourinho?
«Speciale. Come tecnico e come persona. Fu lui a volermi al Real Madrid, senza Mourinho non sarei mai arrivato. Mi spiace averlo avuto una sola stagione».
Il più duro dei tre?
«Mourinho. L’ho visto fare piangere negli spogliatoi Cristiano Ronaldo, uno che in campo dà tutto, perché per una volta non aveva rincorso il terzino avversario. Mourinho è molto diretto con i giocatori, ma è onesto. Trattava Sergio Ramos e l’ultimo arrivato allo stesso modo: se doveva dirti una cosa, te la diceva. Anche Max è così: ti dice in faccia quello che va e quello che non va. L’onestà è fondamentale».
L’allenatore più importante della sua vita?
«Tomo Basic, in Croazia, quando ero ragazzino. Era amico di mio padre. Ci insegnava ad affrontare le ingiustizie. Faceva apposta male a qualcuno e osservava le nostre reazioni. Alcuni si arrabbiavano, altri piangevano perché erano a disagio. Ci spiegava che nel calcio, come nella vita, avremmo visto di tutto, anche le prepotenze. E avremmo dovuto imparare ad affrontare i momenti difficili. C’è stato un momento in cui dicevano che non potevo fare il calciatore professionista perché ero troppo piccolino, troppo fragile: lui mi diceva di non ascoltare. Conta quello che pensi tu di te stesso, non quello che dicono gli altri. Aveva ragione. Mi assicurava: diventerai il migliore al mondo. Senza di lui, senza le sue parole, non sarei mai arrivato dove sono».
Lei sta da sempre con la stessa donna, Vanja. Come l’ha conosciuta?
«Era l’autunno del 2004, giocavo nella Dinamo Zagabria. Siamo insieme da allora, non ci siamo mai lasciati. Lei lavorava in un’agenzia che si occupava di trovare gli appartamenti ai giocatori. La prima volta che mi chiamò per aiutarmi a organizzare il trasloco, la tenni al telefono tre ore chiedendole qualunque cosa, anche la più inutile, pur di parlare con lei. Da lì, poco a poco, il nostro amore è cresciuto. Per me è importantissima. Oggi abbiamo tre figli: il primogenito, Ivano, ha quindici anni».
Gioca a pallone?
«Sì, gli piace, ma non voglio forzarlo, deve fare la sua strada. Ema ha dodici anni, Sofia otto».
Nella sua autobiografia, «A modo mio», pubblicata in Italia da Sperling&Kupfer, lei racconta che sua moglie ha sofferto molto.
«Quando è nato Ivano faticava a respirare. Trombosi a un polmone. Ricordo una corsa in ospedale: non ho mai guidato tanto veloce in vita mia. Dopo i primi due figli, i medici ci avevano suggerito di fermarci. Ma mia moglie voleva il terzo, anche se era rischioso. E quando le donne vogliono, le donne possono. Grazie a Dio, è andato tutto bene. Sofia è l’allegria della nostra casa. A Milano la mia famiglia si trova benissimo».
Che impressione le ha fatto la città?
«La conosco poco, non ho ancora visitato né il Duomo né il cenacolo di Leonardo, ma rimedierò. Amo stare a casa, in zona Porta Nuova. I milanesi sono molto gentili con me. Ogni tanto mi fermano per strada, la cosa un po’ mi imbarazza, ma non mi dà fastidio».
Messi o Cristiano Ronaldo?
«E’ una domanda che non mi piace. Hanno segnato un’epoca. Sono più legato a Cristiano perché ho giocato con lui, è stato mio compagno al Madrid, e vi assicuro che non è soltanto un grande calciatore; è una persona incredibile. La gente non lo sa, ma ha un cuore enorme, sempre pronto ad aiutare gli altri. Ed è un uomo semplice, normale».
E Messi?
«Come uomo non lo conosco, ma non ho dubbi che sia anche lui straordinario. Come giocatore, magnifico».
Con Ibra, oggi consulente di RedBird, il fondo che controlla il Milan, che rapporto ha?
«Buono. Quando ci vediamo, parliamo nella nostra lingua, serbo-croato, e nessuno ci capisce».
Ibra nel 2020 è tornato al Milan a quasi quarant’anni. E ha vinto lo scudetto.
«Vediamo se riusciamo a rifarlo. Siamo in una situazione buona di classifica, manca ancora molto e ci sono molte avversarie forti, ma può succedere. Mai dire mai. Abbiamo molti margini di miglioramento, il mister sta facendo un grandissimo lavoro. Il nostro obiettivo deve essere puntare sempre al massimo. Siamo il Milan ed è giusto così. Per me essere qui è aver chiuso un cerchio. Ora però pensiamo giorno per giorno, nel calcio come nella vita non bisogna mai ragionare troppo sul futuro. Dopo ogni partita, ce n’è un’altra».
Tutti i calciatori hanno tatuaggi, lei no. Perché?
«Perché non mi piacciono. Mai piaciuti. O meglio qualcuno magari mi piace anche, a volte stanno bene, ma sulla pelle degli altri. Sulla mia, no. Ovviamente non ho nulla contro quelli che si tatuano» (Modric sorride).
Lei crede in Dio?
«Sì».
Come immagina l’aldilà?
«Buona domanda. Al di là di cosa? Del calcio o della vita?».
Tutte e due.
«Partiamo dal calcio, che è più facile. Vorrei restare, come allenatore o come dirigente, non so ancora. Ma prima credo di avere ancora qualcosa da dare sul campo».
E dopo la vita?
«Non ci penso quasi mai: come calciatore sono vecchio, ma come uomo sono ancora giovane. Una volta ne ho parlato con un amico…».
Un altro calciatore?
«Sì, Mateo Kovacic. Anche lui è cattolico. E ci siamo detti che qualcosa dall’altra parte c’è. Forse là incontreremo i nostri cari, forse rivedrò mio nonno Luka. Non lo so, davvero. Ma qualcosa c’è. Ci spero tanto».
Lei ha giocato con la Nazionale croata contro la Serbia. E’ una partita speciale?
«Sì. Non è come giocare contro il Galles…».
Che ricordo ne ha?
«Ci ho giocato due volte, nel 2013, qualificazioni ai Mondiali. 2-0 per noi a Zagabria, 1-1 a Belgrado. Ambienti difficilissimi, in entrambi i casi. Non erano sfide normali, la guerra si sentiva ancora, si sente ancora. Credo che sarà sempre così».
Un altro bambino di guerra, sia pure sull’altro fronte, è Novak Djokovic.
«Lo conosco, ci siamo parlati. E’ un grande. Forse il miglior tennista della storia. Non solo per i titoli. Quando lo vedo è sempre un piacere. Ha molto da raccontare».
Lei ha giocato anche in Bosnia, da ragazzo.
«Allo Zrinjski Mostar, la mia prima esperienza, in prestito dalla Dinamo Zagabria. Fu durissima. C’erano bosniaci, croati, serbi. E c’erano tre religioni: musulmani, cattolici, ortodossi. Quando andavi a giocare a Sarajevo era un inferno. Gli arbitri non ti proteggevano. Non era facile. Avevo diciassette anni. E mi è servito molto. Se hai giocato in Bosnia subito dopo la guerra, puoi giocare dappertutto».
La «casa alta» che fine ha fatto?
«Fu incendiata dopo l’assassinio del nonno. Il terreno attorno è stato sminato, anche se ci sono ancora i cartelli di pericolo. Oggi è di proprietà dello Stato. Tutta in rovina, piena di erbacce. Pensano di farci un museo. Ma non vorrei che fossero altri a decidere. La vorrei comprare. Per il nonno e anche per me. Quel rudere è un pezzo della mia vita».
31 dicembre 2025 ( modifica il 31 dicembre 2025 | 08:00)
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