di
Andrea Nicastro

I funzionari dello Stato ebraico: «Non rispettano le nuove regole per i gruppi umanitari». Gli appelli (senza l’Italia) perché il provvedimento venga rivisto

DAL NOSTRO INVIATO
GERUSALEMME – Con l’arrivo del 2026, perderanno l’autorizzazione a lavorare in Israele 37 ong. Per loro vietato il lavoro umanitario quindi anche nei territori palestinesi che lo Stato ebraico occupa o controlla da decenni, Gaza compresa. Hanno tempo fino a marzo per andarsene. Le associazioni umanitarie e alcune rappresentanze diplomatiche stanno provando a protestare, ma niente fa pensare che Israele sia disposta a fare marcia indietro. Si teme che senza una fetta consistente di ong la situazione umanitaria dei palestinesi sia destinata a peggiorare.

Qualche esempio lo dà la Aida, l’Associazione che riunisce cento Organizzazioni non governative (ong) che lavorano a Gaza. «Tutti i trattamenti per la malnutrizione dei bambini nella Striscia sono gestiti da noi, un centro sanitario su tre è completamente dipendente. Le strutture palestinesi e dell’Onu semplicemente non hanno abbastanza personale per aiutare due milioni di persone nelle condizioni oggi presenti a Gaza», dice la direttrice esecutiva Athena Rayburn.
Immediata anche la condanna di Ue e Onu. «I piani di Israele per bloccare le ong internazionali a Gaza significano bloccare aiuti salvavita», ha scritto su X, Hadja Lahbib, commissario europeo per la cooperazione internazionale. «La sospensione da parte di Israele di numerose agenzie umanitarie da Gaza è scandalosa», ha affermato Volker Turk,  responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite. E anche Hamas in una nota ha definito «criminale» la decisione di Israele. 



















































Israele contesta l’idea che la cacciata delle ong possa avere conseguenze a livello umanitario. «Il flusso continuerà attraverso i canali che rispettano i regolamenti nazionali, comprese le agenzie Onu e le organizzazioni umanitarie» che si sono adeguate. Le 37 in via di espulsione sono, secondo il ministero responsabile (stranamente quello della Diaspora) appena il 15% di quelle autorizzate e, tutte assieme, movimentano appena l’1% del volume degli aiuti.

«Quell’1% – è la replica – viene calcolato sul numero dei camion che entravano a Gaza prima della guerra». I chirurghi di Medici senza Frontiere che salvano vite tra le tende della Striscia, i tecnici di Oxfam che fanno funzionare i potabilizzatori, ad esempio, non entrano sui pallet dei camion, ma fanno un lavoro inestimabile. Che sia un’ulteriore spinta alla tragedia umanitaria in corso a Gaza, resta da vedere. Il nodo al momento è evidentemente politico ed ha molte similitudini con il divieto israeliano di far entrare i giornalisti stranieri nella Striscia di Gaza. Lo Stato ebraico è sempre meno propenso ad accettare osservatori indipendenti che possano sollevare critiche alle sue azioni.

La procedura di ri-autorizzazione delle ong è cominciata nel marzo scorso. Il punto più controverso è la richiesta di fornire tutti i dati dei dipendenti, compresi i profili social, le mail e i telefoni privati. In uno Stato con capacità di intercettazione che ha Israele, qualunque opinione contraria espressa, anche in passato, potrebbe comportare la non concessione o la revoca dell’autorizzazione. La procedura va contro la legislazione europea sulla privacy e il diritto alla libertà di parola. 

Già in passato principi simili hanno dimostrato di essere fonte di abusi. Quando Tel Aviv ha voluto chiudere l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) ha accusato alcuni suoi operatori di contiguità con Hamas. Pochi casi su decine di migliaia di dipendenti, senza mostrare prove o concedere il diritto di scagionarsi. Il risultato è stato però quello voluto: Unrwa chiusa e spazio ad una ben più obbediente Fondazione, la celebre Ghf, Gaza Humanitarian Foundation. La Ghf è divenuta famosa nel corso della guerra a Gaza più per gli omicidi che avvenivano nelle sue code per ritirare i pacchi alimentari che per la sua efficacia nell’assistere chi aveva bisogno. La Ghf ha tra i suoi dipendenti anche mercenari americani e sudafricani che non sono mai stati interessati ad esprimersi sul rispetto o meno dei diritti umani da parte di Tel Aviv.

Tra le regole imposte alle ong c’è anche il vaglio delle opinioni dei suoi operatori. Basta «un ragionevole sospetto che si siano espressi a favore del boicottaggio dello Stato ebraico o abbiano messo in dubbio la sua democrazia o il diritto alla sua esistenza» e l’autorizzazione può essere negata o revocata. Tutto magari per un like messo sotto un post anni fa. E sempre senza diritto di difesa.

Philippe Ribero, capo di Msf nei Territori palestinesi occupati, ha raccontato che i presunti legami con Hamas di alcuni collaboratori non sono mai stati provati da Israele e non è stata offerta la possibilità di contestare le accuse.

Oltre a Oxfam e Msf sono nella lista nera anche il Comitato Norvegese per i rifugiati, Defense for Children International, l’International Rescue Committee, Action Aid e Medico. In precedenza erano state espulse altre rispettate e note ong come Save the Children.

In un comunicato congiunto i ministri degli Esteri di Gran Bretagna, Francia, Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Giappone, Norvegia, Svezia e Svizzera si sono appellati a Israele perché riconsideri il provvedimento. L’Italia non ha aderito.

31 dicembre 2025 ( modifica il 31 dicembre 2025 | 16:49)