Il grande romanzo americano non esiste, non nel modo in cui il mondo della letteratura ne decreta l’attesa di volta in volta. Sempre fallendo, sempre mancando l’obiettivo. Già Harold Bloom – il più grande critico americano e uno dei massimi interpreti di valori e simboli della letteratura mondiale – ne aveva stabilito l’impossibilità, decretandone invece l’esistenza all’interno di un canone, in più fasi, in più autori, in più figure retoriche. Bloom scioglieva la figura del demone all’interno dell’opera di più scrittori. Il demone come spinta poetica in Faulkner, in Whitman, in Melville, in Dickinson, in Stevens, per citarne qualcuno. Il demone come genio che vive all’interno della creatività di ognuno di quegli autori e che dà vita e spinta alla forza poetica. Se il grande romanzo americano esiste all’interno di un canone, non potrà mai esistere come libro unico. Esiste in frammenti, in più autori e opere, in un puzzle complesso e mutevole, che comprende romanzi, racconti e poesie. O così, o niente, preferiamo il così e andiamo a vedere da cosa è formato, quali sono i bagliori luminosi e gli anfratti cupi che lo tengono insieme. Quanta pietra, quanta famiglia, quanta terra, quanto amore e morte, quanta violenza, fuga, povertà e Dio lo costituiscono. Il grande romanzo non esiste ma vive e si rinnova di giorno in giorno, ogni volta che una scrittrice, un poeta lasciano che il demone si agiti e si precipiti sulla pagina.

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Cos’è il Grande Romanzo americano

Se ci fossimo fermati agli autori meravigliosi indicati da Bloom in quel momento storico avremmo dovuto considerare finita l’attività della letteratura americana a venire. Il canone è però qualcosa che si muove e consente al grande romanzo americano – pur perdendo spinta in alcuni frangenti – di scriversi anno dopo anno.

Le opere di Philip Roth

Un genio come Philip Roth nel 1972 (ultima edizione italiana Einaudi con traduzione di Vincenzo Mantovani) aveva intitolato così un libro molto divertente che si proponeva di attraversare la storia americana attraverso il baseball, come avevano già fatto Bernard Malamud e Robert Coover prima di lui. Il titolo la dice lunga su quello che pensava Roth della definizione in sé e forse anche del canone. Un romanzo è un romanzo, e la letteratura e la storia americana sono in divenire e si formano ed espandono nel tempo e nel luogo. Philip Roth di certo è nel canone e il grande romanzo americano è composto anche da buona parte della sua opera, con Pastorale americana su tutti. La famiglia perfetta e il suo sfascio, la storia di tutta l’America.

«Chi morirà prima? Domanda che si presenta di quando in quando, come, per esempio: dove sono le chiavi dell’auto?». (Don DeLillo).

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DonDeLillo: da Underworld a Rumore bianco

Andando avanti, potremmo mai dire che Don DeLillo non abbia scritto il grande romanzo americano? Che non abbia contribuito a modificare, ampliare, completare la storia della grande letteratura americana? DeLillo nei suoi romanzi ha sempre trasportato il presente nel futuro come se lo guardasse da uno specchietto retrovisore; senza scivolare in un lungo elenco, facciamo solo due titoli senza i quali la letteratura americana avrebbe poche ragioni di esistere: Underworld e Rumore bianco (pubblicati da Einaudi, rispettivamente tradotti da Delfina Vezzoli e Federica Aceto). Famiglia, baseball, scorie radioattive, strani personaggi, silenzio, qualcosa che incombe, qualcuno da cercare, qualcosa da cui fuggire.

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Joyce Carol Oates

Il grande romanzo e i suoi frammenti. Joyce Carol Oates, potremmo dire che non abbia scritto il grande romanzo americano? Lei che pressoché in ogni storia racconta l’America e i suoi cambiamenti, scegliendo come nucleo di partenza la famiglia, la soglia di dolore, l’errore, il non detto, il segreto, il trauma. La bellezza. La crudeltà, la pietà, la compassione di Oates rappresentano tutto ciò di cui il grande romanzo americano ha bisogno.

«Tutto bene?, chiese l’uomo. Il bambino annuì. Poi si incamminarono sull’asfalto in una luce di piombo, strusciando i piedi nella cenere, l’uno il mondo intero dell’altro». (Cormac McCarthy).

Cormac McCarthy e la frontiera

Poi c’è la frontiera, la pietra, la sfida, il confine, la religione, la durezza, le parole spietate come un fucile puntato e c’è Cormac McCarthy. Più di quelli di cui abbiamo scritto più sopra pare aver trasportato la letteratura americana dal far west – basti pensare alla trilogia della frontiera – dalle terre selvagge, farla transitare dalla solitudine meravigliosa di Suttree alle pallottole mischiate alle parole di Non è un paese per vecchi, fino alla fine di tutto de La Strada, tutti i suoi libri sono pubblicati da Einaudi, quelli citati qui sono tradotti da Maurizia Balmelli, il primo e Martina Testa gli altri due. Nei romanzi di McCarthy pare stare insieme ogni cosa, dalla minima tenerezza all’orrore, dal calore al più grande senso di perdita, dal lupo che ci riporta a casa al figlio da guidare nell’oscurità.

E David Foster Wallace?

No, non esiste e allora Pynchon e il suo postmoderno, e i suoi romanzi meravigliosi dove li mettiamo? E davvero, andando, poco più in là potremmo dire sul serio che David Foster Wallace non abbia partecipato in minima parte al grande romanzo americano?

Il grande romanzo americano non può esistere perché è fatto dalle poesie di Mark Strand, da quelle di Louis Glück, da quelle di Robert Frost, da quelle di Sylvia Plath e da decine di grandi poeti ancora già venuti e di altri a venire. I frammenti, il puzzle, di bagliore in bagliore.

«In me tra il sapere e il raccontare passa un tempo lunghissimo». (Grace Paley)

Il Grande Romanzo americano non esiste

Del grande romanzo americano non sappiamo nulla perché si disperde nei racconti incantevoli di John Cheever, in quelli spietati di Flannery O’ Connor, in quelli sperimentali di Donald Barthelme. E dopo da quelli col meccanismo perfetto di Raymond Carver e quegli altri dal suono di mille voci di Grace Paley. Dalle piscine delle ville, alla campagna, alle roulotte, ai motel, alle grandi città. Fino alla commozione di George Saunders, fino all’oscuro Kentucky di Offutt, fino al Wyoming di Annie Proulx, laggiù e oltre fino al prossimo racconto si spinge, indefinito, come un cavallo indomabile, il grande romanzo americano.

Non sappiamo che fare, ogni tanto, di un’altra scrittrice, di un altro scrittore, qualcuno dalle colonne del New York Times affermerà: Ecco chi potrebbe scrivere il grande romanzo americano. E starà mentendo, e starà dicendo la verità. Noi aspettiamo che continui a saltare fuori di tanto in tanto, il demone carico di poesia certificato da Harold Bloom, continuiamo a leggere e a guardare sugli scaffali delle nostre librerie, perché il grande romanzo americano non esiste ma occupa un sacco di posto e, se saremo fortunati, continuerà a chiederne, a cominciare da ottobre quando uscirà il nuovo attesissimo libro di Thomas Pynchon, Shadow Ticket. Che fatica, che bellezza.

Headshot of Gianni Montieri

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. 

I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli, Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.