Il Diavolo Veste Prada era uscito nel 2006, io avevo otto anni e la più grande preoccupazione fashion che avevo era quale cerchietto o molletta glitterata abbinare ai pantaloni a zampa (che chiamavo «da elefante». ). La pellicola mi aveva folgorata e mi ero ripromessa che in futuro avrei fatto quel lavoro lì, anche se non sapevo ancora ben definirlo, oggi direbbero che l’AURA generale dei personaggi e di quel contesto mi aveva catturata.

Oggi, che di anni ne ho 27 e che il sequel del film cult è ufficialmente in lavorazione, mi ritrovo a fare, a grandi linee, il lavoro che Andy Sachs e Miranda Priestley mi avevano fatto sognare.

Sylvain Gaboury

Certo, la realtà è leggermente diversa e meno glamour: mentre scrivo questo pezzo non indosso un tubino Chanel d’archivio e tantomeno delle Louboutin dal tacco vertiginoso. Il mio outfit da freelance assomiglia più a quello di Emily all’ospedale post incidente: cerchi sotto gli occhi e tuta.

Dal 2006 a oggi (oltre al fatto che all’epoca avevamo vinto i Mondiali) sono cambiate tantissime cose in noi e nel mondo che ci circonda. Se Il Diavolo Veste Prada ci aveva cresciute con l’ideale della «girlboss stacanovista», telefono in una mano e caffè per tenersi sveglie nell’altra, corse in taxi e mail a tutte le ore del giorno e della notte, oggi quella narrativa comincia a starci stretta. La gen z, di cui tecnicamente faccio parte anche io (per un soffio), ha spostato l’asticella: non è più cool correre. È cool rallentare. Prendersi cura di sé, scegliere il lavoro anche in funzione della vita e non il contrario. Il nuovo sogno? Lavorare per potersi godere gli hobby. Il tempo libero è il nuovo status symbol. Chissà se anche Andy, oggi, è paladina dello smart-working, almeno due volte a settimana.