Il prato, le gradinate, le tribune dello Stadio Olimpico a Roma vibrano. E non sono solo i bassi che arrivano potenti al pubblico, ma è l’energia che Kendrick Lamar porta sul palco della sua unica data italiana, apparentemente senza sforzo. E, infatti, quando emerge dall’iconica Buick GNX del 1987 (titolo e cover di un suo album) cantando Wacced out murals, i 58mila spettatori presenti si animano e amplificano il significato di ogni rima, la potenza del suo flow. Di questo, forse, è ben consapevole anche il rapper che è circondato da una scenografia scarna, sui toni del bianco e nero, accompagnato solo dai suoi ballerini che, come nel caso del Super Bowl, sembrano un gruppo di ragazzi qualsiasi di Compton, la città californiana della contea di Los Angeles da cui proviene Lamar. I colori arrivano invece con SZA, la cantante americana che lo accompagna in questo tour mondiale: i due duettano prima sulle note di 30 for 30, poi Lamar le lascia il palco in un’esplosione di sensualità e gioia. Sembrano due facce della stessa medaglia: l’introspezione, la cupezza che lasciano spazio all’allegria, alla spensieratezza, incastrandosi benissimo.
Greg Noire
E infatti, in due ore di show, SZA e Kendrick Lamar continuano ad alternarsi, ciascuna con le proprie sezioni e poi per i pezzi in coppia. Le parti di SZA, introdotte sempre da video onirici a contatto con la natura (a un certo punto del concerto cavalca addirittura una formica gigante), arrivano quando Lamar ti porta nel suo passato: le strade del quartiere, i vecchi video di famiglia, i dadi e un arbre magique giganti, così come quelli che aveva nella sua auto. A un certo punto, una voce fuori campo, quella di uno psicologo in una sezione introduttiva, gli chiede se la sua tendenza a voler scomparire, a non farsi vedere sia invece voglia di essere visto: Lamar risponde ridendo. Un sorriso beffardo che potrebbe essere la descrizione perfetta di quello che è stato il suo show e la sua cifra come artista: un’esibizione senza fronzoli, dove lui si perde tra i suoi ballerini e la scenografia, in cui però arriva potente con la sua musica e le sue rime.
Cassidy Meyers
Il pubblico canta con lui e segue le sue parole, nonostante siamo in Italia e l’inglese del rapper non sia quello dei più semplici. E gli inni da cantare a squarciagola sono Family ties e Not like Us, quelli che descrivono in maniera più incisiva la vita del rapper e che marcano l’effettiva differenza dai suoi colleghi (primi tra tutti Drake). E non è un caso che i suoi fan, prevalentemente della Gen Z e Millennial, si riconoscano in quelle parole: non si tratta solo di un bagaglio di esperienze comuni, ma di come da outsider, in una realtà che lascia pochi spazio ai sogni (sia che tu viva in un sobborgo californiano che in un paesino sperduto), si riesca comunque a trovare la propria voce, a mantenere l’autenticità in un mondo che sembra fatto totalmente di apparenza. Una voce che diventa quindi generazionale e che, pur essendo molto connotata con la realtà statunitense, riesce a essere rappresentativa in maniera trasversale per i fan di tutto il mondo.
Live Nation
A fine concerto, Lamar rientra nella sua Buick, quasi in silenzio, dopo l’ultimo duetto con SZA. E l’impressione è quella di vedere allontanarsi un vero gigante: qualcuno che, con il suo carisma e la sua arte, è riuscito a regalare a Roma una serata che non dimenticherà molto in fretta.