Entrando dall’Italia su Pornhub, la più grande piattaforma di video porno al mondo, al momento ci si trova davanti a una schermata che dice che il sito è per adulti e contiene materiale soggetto a restrizioni di età, e chiede di confermare di avere almeno 18 anni oppure di uscire. Nulla però ha finora impedito ai minorenni di cliccare sulla prima opzione e spacciarsi per maggiorenne, accedendo immediatamente a milioni di video porno, a meno che i loro genitori non avessero impostato un apposito filtro.

Entrare su questi siti – ma anche su molti siti di scommesse o che vendono alcolici, armi o tabacco – è insomma molto semplice. Negli ultimi anni, però, molti politici (a destra ma non solo) hanno cominciato a spingere per l’introduzione di sistemi per la verifica dell’età online, in modo da escludere effettivamente i minorenni da questi siti e «proteggerli». Nel Regno Unito una legge di questo tipo è in vigore dalla scorsa settimana, ma le modalità con cui è stata introdotta hanno creato molto caos, tanto che sono diventati inaccessibili senza la verifica della maggiore età siti che contengono informazioni sulla guerra a Gaza o in Ucraina, o su come gestire il ciclo mestruale. Spotify, addirittura, ha cominciato a chiedere la verifica dell’età per poter ascoltare alcune canzoni rap o heavy metal.

Altre leggi di questo tipo entreranno presto in vigore in Germania e Australia, ed è già successo in vari stati americani (tra cui Texas, Florida e Idaho) e in Francia. Di recente, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato che «proteggere i minorenni dai contenuti osceni» è un obiettivo talmente importante che supera il diritto dei cittadini maggiorenni di navigare liberamente su internet senza sottoporsi alla verifica dell’età.

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Nel Regno Unito l’obbligo di verificare l’età degli utenti per tutti i siti che contengono «contenuti che potrebbero essere dannosi per i minorenni» è in vigore dal 25 luglio: la definizione, però, era molto vaga, e molti siti hanno cominciato a chiedere la verifica dell’età anche per accedere a news o a comunità in cui si discute come smettere di fumare e come riprendersi da un abuso sessuale. Altri, più piccoli, hanno semplicemente deciso di smettere di funzionare nel Regno Unito, per non rischiare di essere multati.

Secondo chi lo propone, chiedere la verifica dell’età di qualcuno prima di permettere l’accesso a su un sito porno non è molto diverso da chiedere la carta d’identità per comprare le sigarette o l’alcool. Quasi tutti gli esperti, però, sottolineano da tempo che le due situazioni sono completamente diverse, perché al momento non esistono sistemi tecnologici di verifica dell’età online che non presentino rischi notevoli, sia per la privacy che per la libertà d’informazione.

Semplificando un po’, i sistemi di verifica dell’età online equivalgono a un tabaccaio che fa una fotocopia del documento di un cliente, tenendola poi per un periodo imprecisato insieme a tutte le altre, senza che si sappia bene chi potrà vederla o come sarà conservata. Normalmente peraltro i tabaccai non chiedono nemmeno il documento ai clienti evidentemente maggiorenni, ma soltanto a quelli che a occhio potrebbero avere meno di 18 anni. La verifica dell’età online, invece, si applica a tutti gli utenti, anche quelli che hanno superato la maggiore età da molto tempo.

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Semplificando meno, invece: al momento esistono vari metodi di verifica dell’età online, e nessuno di questi è considerato davvero sicuro per gli utenti. L’anno scorso uno studio commissionato dal partito dei Verdi europei ha sottolineato che ci vorrà ancora del tempo per sviluppare tecnologie di verifica dell’età che siano davvero robuste, sicure e affidabili.

Nel frattempo, però, i siti che contengono materiale potenzialmente dannoso per i minori sono comunque costretti a verificare l’età degli utenti in un numero crescente di paesi, e quasi tutti lo fanno attraverso società terze che raccolgono i dati sensibili degli utenti, tra cui documenti d’identità ufficiali, scansioni facciali (spesso sotto forma di selfie) o dati bancari. Teoricamente, queste aziende possono ridurre al minimo il quantitativo di dati che raccolgono sugli utenti che vi fanno ricorso, e memorizzare i loro dati soltanto per un periodo ridotto di tempo: quasi sempre, però, non sono aziende particolarmente trasparenti, e molte raccolgono anche informazioni sul genere di sito a cui l’utente ha richiesto di accedere (e quindi sull’eventuale consumo di pornografia, che è ancora oggetto di un certo stigma).

«Una volta condivise queste informazioni, un utente non ha modo di sapere per certo che i dati che sta fornendo non verranno conservati e utilizzati dall’azienda che li sta raccogliendo, o se verranno condivisi o addirittura venduti a qualcun altro», riassume l’Electronic Frontier Foundation, una delle più importanti organizzazioni per la libera fruizione del web. Quando dati di questo tipo vengono resi pubblici, il danno non è soltanto ipotetico: esiste un grosso settore di criminali che sfruttano i dati pubblicati (o che rubano quelli privati) a fini di estorsione o furto d’identità. Non è difficile credere che le persone sarebbero disposte a pagare per evitare che le informazioni sulle loro abitudini sessuali vengano condivise: succede già, nei casi di adescamento online ai fini di estorsione.

Molti utenti non sono consapevoli dei rischi, e forniscono senza pensarci troppo i dati della carta d’identità o del proprio conto in banca per verificare la propria identità. Molti altri invece si rifiutano di farlo, che sia per prudenza o perché non sono, effettivamente, maggiorenni: quasi sempre, nei territori in cui entrano in vigore queste leggi, aumenta molto l’utilizzo di reti VPN, che permettono agli utenti di fingere di trovarsi in un altro paese e quindi di circuire il divieto. Altri ancora si mettono a cercare lo stesso genere di contenuto (porno, quasi sempre) su siti più piccoli e meno sicuri, che non applicano la legge ma che espongono gli utenti a rischi di altro tipo (e che spesso contengono video particolarmente estremi).

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Ci sono poi persone con cui questi sistemi non funzionano. Una percentuale piccola ma non insignificante di persone è maggiorenne ma non ha documenti validi che possa usare per dimostrare l’età, magari perché immigrati irregolari. Un numero molto maggiore di persone, poi, è escluso da alcuni sistemi di verifica dell’età per ragioni tecniche: i sistemi che non si basano sulla condivisione di documenti ma su una stima dell’età basata su un selfie scattato sul momento, per esempio, funzionano particolarmente male sulle donne e sulle persone non bianche. Aziende come Google stanno lavorando a soluzioni per ovviare a questi problemi, ma i sistemi finora utilizzati dalla larghissima parte dei siti sono ancora datati e poco sicuri.

Le leggi che impongono la verifica dell’età non parlano quasi mai esplicitamente di porno, ma di «materiali dannosi per i minori», lasciando aperta la possibilità di imporre restrizioni all’accesso ad altri contenuti che potrebbero essere utili agli adolescenti, come quelli relativi all’educazione sessuoaffettiva, all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Anche in questo caso non si tratta di un caso ipotetico: è quel che è successo nel Regno Unito appena è entrato in vigore l’obbligo.

Per esempio, Dazed ha raccontato che «vari forum di Reddit dedicati alla salute sessuale e alle aggressioni sessuali sono stati bloccati, il che non ha molto senso considerando che si può fare consensualmente sesso a 16 anni e si può essere vittima di aggressione o contrarre una malattia sessualmente trasmissibile a qualsiasi età». Lo stesso è successo a forum che non avevano nessuna ragione di essere considerati inappropriati, come quelli dedicati alla salute dei gatti. Per ora, il governo britannico ha detto di non aver alcuna intenzione di emendare la legge.

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In questo contesto, vari esperti ritengono che le leggi per la verifica dell’età contribuiscano soltanto a creare un falso senso di sicurezza tra i genitori di figli minorenni, che andrebbero invece educati a usare i tanti sistemi di controllo parentale oggi disponibili per quasi ogni app e dispositivo. «Da ex insegnante delle scuole medie, capisco che i genitori si trovino ad affrontare decisioni complesse su come aiutare i figli a orientarsi nel mondo digitale odierno», ha scritto per esempio la ricercatrice Jennifer Huddleston, esperta di politiche tecnologiche. «Ma la risposta migliore è l’educazione, non la regolamentazione».