di Marino Pérez Álvarez
La crisi della salute mentale è ormai una caratteristica del XXI secolo, identificato anche come “il secolo della solitudine”. In un primo momento, erano le persone anziane a soffrire maggiormente di crisi di salute mentale e solitudine, per ragioni che sembravano ovvie. Era atteso anche in altre fasce della vita adulta (i 30, 40 e 50 anni); a ogni decennio, la sua crisi: lavori precari, mutui, primi divorzi, controlli medici, eccetera.
Tuttavia, oggi la crisi di salute mentale per antonomasia si associa principalmente a bambini, adolescenti e giovani, età sempre più fluide tra loro e che sono quelle messe peggio. Non a caso si parla di loro come della “generazione ansiosa”.
Gli studi mostrano che dal 35% al 50% degli studenti delle scuole e delle università presentano sintomi di ansia e depressione. Altri problemi, come dipendenze, anoressia, bulimia, comportamenti autolesivi, pensieri suicidi e suicidi o ADHD, sono anch’essi in aumento. I ricoveri ospedalieri di adolescenti per motivi di salute mentale crescono e iniziano sempre più precocemente.
Questa crisi che colpisce infanzia, adolescenza e gioventù è doppiamente paradossale. Da un lato si manifesta in una società del benessere, dall’altro tocca proprio le età migliori della vita, che ricevono oggi più attenzione emotiva che mai. Una spiegazione molto diffusa attribuisce tutto allo stress che affliggerebbe le nuove generazioni. Si invocano la pressione scolastica (compiti, verifiche, valutazioni), l’ansia climatica e i social network.
E’ difficile vedere nella scuola la vera causa, oggi si fa di tutto per proteggere il benessere degli studenti, evitando bocciature, correzioni severe e critiche, e anzi elargendo approvazioni. Anche le università si sono trasformate in “spazi sicuri”, quando in realtà dovrebbero essere luoghi “insicuri” per le idee precostituite, per stimolare nuove conoscenze, anche scomode.
L’ecoansia, ovvero l’ansia causata dalle notizie sul cambiamento climatico, viene citata dall’84% dei giovani tra i 16 e i 25 anni. Tuttavia, non basta a spiegare la crisi, si tratta piuttosto di una postura etica e politica, non di una vera patologia. I social network, invece, aggravano sicuramente il disagio psicologico, soprattutto dal 2012 in poi, quando il loro uso si è diffuso. Ma non sono la causa originaria, esasperano un problema già esistente.
Lo stress è sempre relativo alla vulnerabilità, per cui una stessa situazione può essere stressante per alcuni e irrilevante, o persino stimolante, per altri. La vulnerabilità viene solitamente interpretata in termini di predisposizione genetica e di neuro-sviluppo, il che dà origine alla spiegazione vulnerabilità–stress.
La vulnerabilità, in questa spiegazione, si deduce a partire dai disagi osservati. Hai la depressione perché sei vulnerabile, e sei vulnerabile perché hai la depressione. Una spiegazione tautologica. Tuttavia, le nuove generazioni sembrano essere davvero più vulnerabili di quelle precedenti. Al di là della genetica, del neuro-sviluppo o di qualche presunta disfunzione mentale, la vulnerabilità va cercata altrove, nella società. Viviamo in una società che ci rende vulnerabili.
E questa vulnerabilità sociale nasce persino da buone intenzioni: non per danneggiare i giovani, ma per renderli sicuri, felici, pieni di autostima. I problemi non dipendono da guasti nel cervello infantile. I cosiddetti “disturbi mentali” non si trovano dentro i bambini e i ragazzi, ma dentro la società che li cresce, una società fragile. La crisi di salute mentale è un sintomo di questa società.
La società vulnerabile si definisce per due caratteristiche che si alimentano a vicenda, da un lato, l’iperprotezione (cioè come si educano e si crescono i bambini) e, dall’altro, la cultura della diagnosi (in base alla quale ogni malessere entra facilmente nel radar clinico). L’iperprotezione fatta di consenso, la rimozione degli ostacoli per evitare inciampi, l’infusione di autostima attraverso l’adulazione (“sei speciale”, eccetera) si giustifica con l’idea (vera) che i bambini siano vulnerabili. Tuttavia, se tratti qualcuno come vulnerabile, finirà per diventarlo. Come dice Goethe: “Tratta un essere umano per quello che è, e resterà quello che è; trattalo come può e deve essere, e diventerà quello che può e deve essere”.
Senza alcun fondamento scientifico, e contro il buon senso, nuove generazioni di genitori hanno dato per scontato che tutto ciò che non sia soddisfare i desideri dei figli possa causare loro un trauma. Partendo dall’idea che i bambini sappiano cosa vogliono, educare è diventato accompagnare. Si prepara la strada per il bambino, ma non il bambino per la strada della vita, che sarà sempre piena di pietre, pozzanghere, salite, discese, bivi, eccetera. Si allevano, per così dire, bambini gonfi di autostima, iperprotetti, quasi mai esposti alle difficoltà che la vita inevitabilmente presenta. Vulnerabili agli ostacoli del momento.
Progressivamente, a partire dagli anni Novanta, si è affermata una vera e propria cultura della diagnosi (nota anche come cultura della terapia), che facilita l’ingresso dei disagi quotidiani nel radar clinico. Pietre miliari di questa cultura si trovano nella serie I Soprano (1999–2007) e nel film Terapia e pallottole (1999), dove anche i mafiosi più duri vanno in psicoterapia, così come nello storico show televisivo statunitense di Oprah Winfrey (1986–2011), con un formato da “seduta psicologica”. Più che una pietra miliare, The Oprah Winfrey Show ha creato una vera “cultura della confessione” di problemi psicologici, che sembrava avere in sé un effetto terapeutico. Da allora, avere problemi psicologici e andare in psicoterapia ha smesso di essere uno stigma per diventare una moda. Resta da vedere l’impatto della miniserie Adolescenza; se, ad esempio, il suo sguardo centrato sulla rete sociale, invece che sulla vittima, rappresenterà un approccio più sociale che meramente psicologico individuale.
È un dato di fatto che oggi il linguaggio clinico si è impadronito della sofferenza, a scapito di altri linguaggi possibili come quello sociale, politico, morale ed esistenziale, che potrebbero affrontare i problemi in una dimensione meno incentrata sull’individuo come “malato mentale”.
Permettete di rispondere a questa domanda retorica. Le diagnosi tranquillizzano i genitori perché implicano che i loro figli abbiano qualcosa, (ansia, depressione, disturbo da deficit di attenzione e iperattività) che spiegherebbe il loro disagio (incomprensibile altrimenti, visto che non manca loro nulla). Nelle scuole torna in primo piano il benessere emotivo. I professionisti della salute sono sopraffatti. Bambini, adolescenti e giovani accolgono con favore le diagnosi, perché li rendono visibili. “Meglio diagnosticati che invisibili”, sembrerebbe essere il motto. Per i politici, niente è meglio che avere cittadini con una diagnosi, così hanno già abbastanza da gestire. E per la società è perfetto: in questo modo si privatizzano problemi che lei stessa genera, come se fossero qualcosa che appartiene ai singoli individui. Dov’è il problema?
Prima di tutto, smettere di pensare alla crisi come qualcosa che ci è piombato addosso misteriosamente. La crisi è il risultato della società fragile che abbiamo costruito: da un lato iperprotegge, dall’altro clinica ogni sofferenza. E nel frattempo, il disagio è diventato un badge, uno status. Visto che la sofferenza è reale, anche se non sempre le sue cause lo sono, gli aiuti psicologici sono necessari. Ci sono due fronti, quello dell’intervento immediato e quello della prevenzione. Nel primo caso, occorre offrire un aiuto che normalizzi il malessere, lo colleghi al contesto e, se possibile, lo cambi. Non serve scavare nei sentimenti o nei presunti traumi: sarebbe solo un altro modo per guardarsi l’ombelico.
In prospettiva preventiva, per le generazioni future, è il momento di ripensare sia l’educazione iperprotettiva sia la cultura clinica che trasforma in malattia i problemi normali della vita, senza mai chiedersi se non sia la società stessa a dover cambiare.
Una cosa è certa: la soluzione non consiste nell’avere più psicologi e psichiatri, che comunque non basterebbero mai.
Marino Pérez Álvarez è psicologo, accademico e saggista. Ha ricoperto la cattedra presso l’Università di Oviedo. È membro dell’Accademia Spagnola di Psicologia. Articolo pubblicato su The Conversation