Johnson Righeira, al secolo Stefano Righi, non ha mai inseguito le mode. Ha sempre anticipato i tempi, come una sorta di rabdomante di ciò che ci aspetta nell’avvenire prossimo venturo. Ora vive in campagna, produce vino e t-shirt con frasi iconiche e continua a scrivere tormentoni che suonano ancora come manifesti esistenziali. L’ultimo si chiama Chi troppo lavora (non fa l’amore) e riassume bene il suo stile futurista: «Dentro ci sono Adriano Celentano, Dino Campana, Ugo Nespolo e una frase su un monumento: “Lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare”. Come ci ha spiegato in questa intervista, a 40 anni da Vamos a la playa, Johnson è ancora lì a giocare sul filo tra impegno e parodia, tra hit estive e apocalissi, altro che politica: «Se sono di destra o di sinistra? Sono futurista, perché demoliva tutto e lo ricostruiva». E mentre i colleghi fanno i conti con la musica fluida, lui rivendica un’idea analogica senza tempo: «Il sogno della vita era non fare un cazzo, devo dire di esserci riuscito». Ci ha raccontato anche perché la squadra di calcio Union Saint-Gilloise ha come inno una sua canzone mentre sulla reunion con Michael Righeira non chiude la porta: «Il bello del futuro è che non sai mai cosa succederà».
Partiamo dalle origini. Chi era Stefano Righi prima del successo?
Era uno che aveva voglia di fare delle cose. Probabilmente stavo già studiando da situazionista, come sono poi diventato in seguito. Al liceo, per esempio, mi inventai con altri studenti, come gesto di protesta verso la sinistra che era la nostra parte politica, di presentarci con una lista alle elezioni del consiglio di istituto con l’intento di mandare tutto in vacca. Non a caso avevamo chiamato questa lista “Banana”, con un programma davvero delirante. Io ero candidato con un caro amico che era stato fatto fuori malamente da una lista di sinistra.
Qual è stato il momento più memorabile della lista “Banana”?
Quando andammo a comprare 27 chili di banane al mercato e poi le distribuimmo di fronte al nostro istituto come se fossero dei volantini con il nostro programma elettorale. E alla fine riuscimmo ad accaparrarsi persino un seggio nel consiglio di istituto. Ma ero attivo anche su altri fronti. Organizzavo una fanzine punk, e grazie a questa fanzine nacque un’altra rivista, che però non vide mai la luce, alla quale doveva essere abbinato un 45 giri musicale. Sfumò il giornale, rimase il 45 giri e quel progetto mi spinse a pensare di completarlo con dei pezzi.
Quando si evoca il destino…
Pensai ad alcuni brani e quello è stato l’esordio di Johnson Righeira. Poi avvenne tutto in modo abbastanza rapidamente. Dall’uscita di questo 45 giri nel 1980 a due anni dopo, quando conoscemmo i fratelli La Bionda e andammo a registrare Vamos a la playa, io partii per la naja nel 1983, uscì in quei giorni il pezzo che cominciò a spopolare e il resto è storia.
Abbiamo guadagnato un artista situazionista e perso un politico fuori dagli schemi?
Difficile fare ipotesi diverse da quello che si è realizzato. Io credo che la mia componente ironica, dissacratoria e fuori dagli schemi mi avrebbe accompagnato in ogni ambito.
Sei di Torino, una città che ha il suo fascino ma non è mai stata particolarmente colorata. Invece voi eravate caratterizzati anche dai colori accesi. Una reazione?
Sicuramente sì. Oggi è cambiata molto dalla Torino della mia adolescenza, ma allora era molto grigia. Anche per questo devo aver sempre preferito i colori sgargianti e fluorescenti per presentarmi nelle varie espressioni artistiche. Come istinto di conservazione rispetto ai toni grigi della città di allora, che era una sorta di dormitorio per i lavoratori della Fiat. Ma anche come reazione ai toni cupi della new wave che esplose proprio in quel periodo. Infatti all’esordio indossavo un maglione giallo e una cravatta arancio fluo. Così in seguito i Righeira, come duo, sono stati caratterizzati dalla contaminazione di colori molto sparati.
Come reagì la scena musicale del tempo, dalla critica ai cantautori e fino alla new wave?
La critica musicale ci sottovalutò parecchio, per poi, dopo qualche decennio, tornare a prendere in esame testi come quello di Vamos a la playa. Ma dovettero passare almeno 20 anni. La critica ci ha sostanzialmente snobbato, con mia grande sofferenza. Per quanto riguarda i colleghi, mi ha riportato un episodio molto bello Alberto Bertoli, figlio di Pierangelo. Anche lui, come cantautore, era alla casa discografica CGD. Lui aveva la fama di essere un osso duro, uno ostile alle novità, invece già allora percepivo da parte sua un atteggiamento molto benevolo. Anni dopo, Alberto mi ha raccontato che quando ascoltò la nostra musica gli disse di aver conosciuto due ragazzi con delle canzoni fortissime. Mi ha fatto un enorme piacere. Uno come Pierangelo Bertoli, che poteva sembrare artisticamente lontanissimo dai Righeira, invece, più di tanti altri, ci percepì in modo positivo e innovativo.
Sei cresciuto in una famiglia comunista, con tuo padre che aveva Che Guevara appeso nel tinello. Ma tu sei di sinistra, di destra o futurista?
Intanto ho sempre rifiutato la collocazione del movimento futurista a destra. Guardavo la sua portata innovativa slegandola dalla storia personale di alcuni suoi appartenenti, Marinetti in primis. Mi sono innamorato dell’estetica e della dinamicità del futurismo, anche come progettualità di demolire e ricostruire tutto daccapo, con una logica diversa dal passato. Certamente, all’inizio questa collocazione non mi faceva valutare in modo positivo dalla mia parte politica, che è la sinistra. Ora anche il futurismo è stato ampiamente sdoganato. Ricordo che nella mia Torino, città storicamente di sinistra e operaia, fu organizzata la prima grande mostra sui futuristi che contribuì a cambiarne la percezione. Si intitolava Ricostruzione futurista dell’universo, dentro la Mole Antonelliana. Lì mi innamorai del movimento, che poi coinvolse tantissime persone con un’altra grande mostra a Palazzo Grassi a Venezia.
Come nella musica, anche su altri fenomeni artistici o meno sembra che tu abbia delle ottime antenne per percepire dove tira il vento prima degli altri.
Sono sempre andato in cerca di visioni trasversali e diverse dal pensiero comune.
Dopo il successo di Vamos a la playa, il dizionario Zanichelli fece propria la definizione di “tormentone”. Ti senti più in colpa o sei più fiero di questo primato?
I tormentoni esistevano da prima, solo che non venivano definiti tormentoni. Io stesso mi sono ispirato a quelli degli anni ‘60, solo che prima non li chiamavano con quel termine. Il mio ripartire dal passato, riprendendo i canoni della canzone da spiaggia alla Peppino Di Capri o alla Edoardo Vianello, è stato un modo per riprendere, anche involontariamente, certi stilemi e quindi ha riportato in auge un tipo di canzone che poi è stato definito “tormentone”. Per questo, simpaticamente, non mi sento responsabile dei tormentoni successivi, né della deriva che hanno preso quelli degli ultimi anni, dove si prova a realizzare dei tormentoni con delle formule chimiche da laboratorio o con l’utilizzo dei più recenti algoritmi.
Voi invece non li studiavate a tavolino?
No, anzi, più passa il tempo e meno pezzi che somigliano all’idea di tormentone sento in giro. C’è un affollamento di tantissima roba omologata e totalmente anonima, niente di originale. Da questo grigiore si stacca, senza dubbio, il mio singolo Chi troppo lavora (non fa l’amore).
Questa estate, non a caso, per la prima volta nessun tormentone ha avuto la meglio.
Se non ci fosse una sorta di ostracismo verso tanti altri da parte dei network, come nei miei confronti, e se facessero passare di più il mio singolo, sono sicuro che non ci sarebbero dubbi. Chi troppo lavora (non fa l’amore) è il miglior tormentone dell’estate 2025.
Anche perché, già dal titolo, mi sembra in perfetta controtendenza con i trend attuali che spingono le persone a lavorare costantemente per guadagnare sempre di più, ma senza farcela mai fino in fondo.
Ma certo! Al di là della voluta leggerezza, da canzone estiva, ha diversi snodi che derivano da questioni molto serie. Come il “lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare”, che è una frase presa da un monumento sul lungomare di San Benedetto del Tronto, dedicato all’artista Ugo Nespolo che si ispira a sua volta a una poesia del grande poeta Dino Campana. Oppure il gioco con il titolo della canzone originaria di Adriano Celentano, Chi non lavora non fa l’amore, che uscì negli anni ‘70 a Sanremo e suscitò parecchie polemiche in un periodo caratterizzato dalle lotte operaie e scioperi. La canzone sembrava incoraggiare, al contrario, il boicottaggio delle proteste e favorire il crumiraggio. Questa, all’opposto, ricalca lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, in modo da avere anche più tempo per fare l’amore.
Canti anche: “Lavorare, lavorare, lavorare non fa per me”. È autobiografico?
Io, tra il serio e il faceto, ho sempre detto che il sogno della mia vita era di non fare un cazzo! E devo dire di esserci abbastanza riuscito. Di certo non mi sono ammazzato di lavoro. Quantomeno ho fatto un mestiere che non considero tale, quindi è come non fare un cazzo. Ho seguito una passione che, anche nel pezzo, può essere un invito a tutti a fare lo stesso.
Un’attitudine condivisa con i giornalisti col detto: “Sempre meglio che lavorare”.
Fare musica o il giornalista è sempre meglio che lavorare in miniera.
Quindi, né in passato né oggi hai sentito l’ansia dei numeri, che oggi è enorme?
No, perché oggi in più sono diventati astratti come la musica stessa. Ormai si parla solo di cose virtuali. Non che prima la musica potessi toccarla, ma almeno toccavi il supporto sul quale veniva registrata. Aveva delle dimensioni fisiche. Adesso non esiste mai, è sempre qualcosa di evanescente. La ascolti su apparati che non sono nati per ascoltarla e non è com’era il disco, che lo compravi, lo portavi a casa e lo abbracciavi come un feticcio. Oggi che è scomparso, non a caso, parallelamente a questa trasformazione anche la musica stessa sembra aver perso parte del proprio peso, sostanzialmente una importanza in generale.
Qual è la conseguenza più evidente?
La colonna sonora della vita non è più fondamentale come in passato. Dopo 40 anni e passa di carriera nella musica, a ogni serata che faccio c’è qualcuno che alla fine viene a dirmi «con la tua musica ho scopato» oppure «con le tue canzoni ho conosciuto mia moglie». Mi danno fin troppa responsabilità, ma sapere di essere stato parte della vita delle persone, associato a ricordi belli, è una sensazione che mi rende, a conti fatti, molto orgoglioso.
Le situazioni più folli che hai vissuto nei periodi di massimo successo?
Noi abbiamo sicuramente avuto più donne di quelle che avremmo avuto se non fossimo diventati i Righeira, però non eravamo considerati dei sex symbol. Eravamo quelli strani, infatti attiravamo delle donne strane come noi. Perché ci guardavano tutti un po’ di traverso, non riuscivano a capirci bene. Ho poca memoria, da bravo futurista non avendo memoria del passato non posso che pensare al futuro. Per darti un’idea, al Premio Tenco recentemente ho incontrato Tullio De Piscopo, che non vedevo da tempo, e mi ha detto: «Ti ricordi quella volta anche abbiamo sfasciato un locale e hanno chiamato i carabinieri?». Io non mi ricordavo assolutamente nulla. Ricordo degli incontri molto belli con altri artisti.
Un episodio?
Uno che mi ha flashato è quando a Parigi, in uno studio televisivo, Boy George ci vide e si mise a cantare Vamos a la playa. Rimasi basito. Mai mi sarei immaginato di trovarmi al suo cospetto e che ci conoscesse bene, quando fino al giorno prima compravo i suoi dischi.
Cosa hanno rappresentato i fratelli La Bionda?
Loro sono stati fondamentali. Quando sentirono il primo demo di Vamos a la playa, intuirono subito il suo potenziale. Solo che, affinché funzionasse, volevano farlo diventare più allegro. E lo fecero diventare così allegro che nessuno fece caso al testo che parlava di uno scenario apocalittico. I Righeira, senza i fratelli La Bionda, sarebbero rimasti nelle cantine. Però anche se i fratelli La Bionda non ci avessero incontrato non sarebbero stati poi considerati gli inventori di un genere musicale che oggi è tornato di moda come l’italo disco. È stato un incontro straordinariamente fortunato per tutti e del quale dobbiamo ringraziare il destino.
Tornando alle premonizioni futuriste, nel 1983 cantavate No tengo dinero, poi considerata una critica alla società consumistica. Oggi i soldi mancano davvero.
Già al tempo mi ricordo le battute di quando andavo alla cassa a pagare qualsiasi cosa e mi cantavano No tengo dinero, scherzando ma spiegandomi che era la loro canzone non avendo una Lira. Diciamo che in Italia è sempre stata adatta ai tempi, perché siamo in perenne crisi da quando io ho memoria. In costante ricerca di un benessere che in fondo non c’è mai stato. Adesso è peggio, anche per motivi politici e bellici, che non pensavo sarebbero tornati.
Perché, nonostante il panorama discografico che hai appena descritto, tornare con la tua musica è ancora importante?
Per me è importante perché vorrei riconquistare il posto rimasto vacante dai Righeira, quando hanno avuto un calo fisiologico. Quello spazio non è mai stato occupato. Di nuovi Righeira non ne ho mai sentiti in giro. Per cui volevo riprendermi quello spazio perché lo trovo, mai come oggi, libero in modo preoccupante. E credo di averne bisogno io, ma anche la musica.
Anche come scelta di vita mi sembra che tu abbia fatto un gesto anticipatore, almeno rispetto a quello che stanno facendo in molti oggi: abitare fuori dalle grandi città.
Esatto, ora abito in campagna nel Canavese, in Piemonte. Da anni vagheggiavo di acquistare un rustico, magari anche come buen retiro, ma poi un vecchio amico che già ci abita mi ha detto che nella stessa corte, sotto la sua abitazione, c’era uno spazio vuoto. Detto fatto, dopo averlo visto mi piacque, prima lo affittai e poi, quando ci fu l’annuncio del lockdown, invece di tornare a casa rimasi lì. Da quel giorno sono rimasto, cambiando la mia vita radicalmente. Vivere qui è come essermi sciacquato la testa e mi è nata una nuova voglia di progettualità.
E sono nati sia l’etichetta musicale che il vino.
La Kottolengo Recordings & Wines, sia etichetta musicale che etichetta del vino che produco. In più, finalmente, sono riuscito a dar vita a una linea di t-shirt con frasi iconiche alla quale pensavo da tempo. Insomma, dopo tutte queste cose un po’ come agli esordi, ho ricominciato a muovermi e sono ritornato anche al progetto musicale riaffrontandolo con un piglio nuovo. Come dicevi, effettivamente ho anticipato chi oggi esce dalle grandi città. Senza teorizzare nulla, ho sempre fatto tutto in modo totalmente istintivo. Ora vivo in campagna e vado in vacanza in città. Per me finora ha funzionato, chissà che non funzioni anche per altri.
Un’altra soddisfazione, per la quale ti ho visto davvero emozionato quando la raccontavi in Tv, è che la squadra di calcio belga dell’Union Saint-Gilloise ha scelto Vamos a la playa come inno del proprio club.
Assolutamente, l’ho scoperta anni fa per un viaggio di lavoro. Volevo andare a vedere una partita e l’unica in quei giorni era l’Union Saint-Gilloise. Mi sono innamorato di questa squadra, intorno alla quale c’è un clima genuino come nel calcio italiano d’antan, ho cominciato a seguirla e ho scoperto che è nata lo stesso giorno della Juventus, mia squadra del cuore. Dalla serie C alla Serie A, nel 2025, dopo 90 anni, ha vinto lo scudetto nella massima serie belga. Per cui ora è diventata la mia seconda casa. A questo si aggiunge che la Vischese, piccola società di promozione in Piemonte, giocherà dal prossimo campionato con le maglie con sopra la scritta “Kottolengo by Johnson Righeira”. Cosa posso chiedere di più?
In epoca di reunion, quanto è impossibile con Stefano Rota, alias Michael Righeira?
Quando sei un duo e non sei d’accordo su quello che fai c’è poco da decidere. Se fossimo stati una band ci sarebbe stato più margine. Ma non si può escludere nulla. Allo stato attuale mi sembra impossibile, solo che un giorno potrebbero anche esserci le condizioni che la renderanno fattibile. Il bello del futuro, l’ho sperimentato, è che non sai mai cosa ti riserverà. L’imprevedibilità è interessante perché ricominci da zero e da altre prospettive.