Se potessimo includere tutti i mali del mondo in una sola parola, quale sceglieremmo? Di sicuro il termine estrattivismo sarebbe un buon candidato, almeno secondo attivisti e studiosi. Ormai onnipresente, la denuncia dell’estrattivismo è intersezionale. La troviamo nei dibattiti sull’ecologismo, sul decolonialismo e sull’anticapitalismo. L’estrattivismo indica il furto, la depredazione e lo sfruttamento del sud del mondo, ma anche l’inquinamento e la deregolamentazione che colpisce l’ambiente.
All’inizio l’espressione si riferiva soprattutto allo sfruttamento delle foreste, delle miniere e dei giacimenti di petrolio da parte delle multinazionali in Sudamerica, ma oggi si ritrova nei contesti più diversi: la pesca intensiva, lo sfruttamento del corpo delle donne, l’appropriazione delle culture indigene, l’uso dei dati personali da parte dei giganti della tecnologia.
L’idea di estrattivismo propone una griglia di analisi complessiva del sistema economico, nel solco del concetto di sfruttamento delle persone sulle persone. L’assonanza tra i due termini non è casuale. Prima di essere resa popolare da Karl Marx (1818-1883), la parola ausbeutung (sfruttamento) era infatti usata per indicare l’estrazione del carbone e dei minerali.
La parola extrativismo (senza la “c”) è apparsa per la prima volta in Brasile negli anni trenta del novecento per indicare lo sfruttamento delle piantagioni di caucciù e altre piante.
Ma è con un’accezione diversa che il termine extractivismo (con la “c”) si è diffuso a partire dagli anni ottanta nei paesi vicini, nel contesto della resistenza dei popoli autoctoni ai grandi progetti minerari.
Alla fine degli anni duemila il concetto è stato ripensato e modellato da alcuni studiosi. Tra loro ci sono la sociologa argentina Maristella Svampa, il biologo uruguaiano Eduardo Gudynas e l’economista ecuadoriano Alberto Acosta. Il lavoro di questi pionieri fa parte di una lunga riflessione sulla violenza economica inflitta ai popoli del subcontinente americano, ispirata alla teoria della dipendenza (dei paesi del sud da quelli del nord) degli anni cinquanta e sessanta.
Secondo il giornalista britannico George Monbiot, un libro in particolare ha ricoperto un ruolo centrale nella concettualizzazione dell’idea di estrattivismo, anche se nelle sue pagine la parola estrattivismo non compare mai. Si tratta di Le vene aperte dell’America Latina (Sur 2021) di Eduardo Galeano. “Galeano denunciava tutto ciò che oggi includiamo nel concetto di estrattivismo, proponendo una griglia di analisi che resta ancora molto attuale”, assicura Monbiot, esperto di questioni ambientali. Nel suo testo lo scrittore uruguaiano mette a nudo i meccanismi di sfruttamento del subcontinente. “Dalla scoperta [dell’America] fino ai nostri giorni, tutto si è sempre trasformato in capitale europeo e successivamente nordamericano”, scrive Galeano. “Tutto: la terra, i suoi frutti e le sue ricchezze minerali, le persone e la loro capacità di lavoro e di consumo, tutte le risorse naturali e umane”.
Svampa, Gudynas e Acosta hanno descritto gli ingranaggi di questo sistema. Secondo Svampa, l’estrattivismo è “un modello di accumulazione fondato sullo sfruttamento delle risorse naturali, in gran parte non rinnovabili”. Per Gudynas, invece, l’espressione indica “le attività che estraggono grandi volumi di risorse naturali sostanzialmente senza trasformarle, per poi destinarle all’esportazione”. Temendo una diluizione del concetto, Gudynas esclude le risorse non fisiche (lavoro, dati). Tuttavia altri esperti, soprattutto nel campo degli studi decoloniali, non sono d’accordo con questo limite. Il sociologo portoricano Ramón Grosfoguel, per esempio, propone un “estrattivismo epistemico” (sfruttamento delle conoscenze di un popolo), mentre la canadese Jen Preston parla di “estrattivismo razziale” (sfruttamento dei lavoratori migranti).
Il concetto è stato rapidamente importato in Europa “dai movimenti che si sono ispirati alle lotte latinoamericane e da ricercatrici e ricercatori critici, sulla scia dei lavori del filosofo Toni Negri sulla metamorfosi del capitalismo”, sottolinea l’antropologa Kyra Grieco. “Questi autori hanno indicato l’estrattivismo come una caratteristica del capitalismo contemporaneo, in cui il valore è ‘estratto’ invece che ‘prodotto’ dal lavoro”, precisa Grieco. “L’estrazione del valore supera dunque quello sfruttamento della manodopera che risulta centrale nella teoria marxista classica. L’idea si applica ad altri contesti, dai dati personali al turismo di massa.”
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Secondo il pensiero critico di oggi, i paesi del sud del mondo sono stati il laboratorio di un modello che è diventato globale. La logica estrattivista, in questo senso, sarebbe il motore nascosto del capitalismo contemporaneo.
Due tratti, in particolare, definiscono questo meccanismo: uno sfruttamento delle risorse che non si preoccupa del loro rinnovamento e delle ricadute negative (inquinamento, povertà) e un controllo da parte delle reti oligopolistiche. I benefici di questa “predazione del valore” sono concentrati nelle mani di pochi, mentre i costi ricadono sul resto dell’umanità.
Infine, oggi l’estrattivismo pervade la mentalità di molti leader della politica e dell’economia, come risulta evidente dallo slogan carico di testosterone coniato da Donald Trump: “Drill, baby, drill!” (Scava, bellezza, scava!).
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